nostro inviato a Washington
La corsa all'armamento nucleare fra le potenze della mezzaluna non è più solo una minaccia: la «bomba islamica» assemblata al supermarket dell'ordigno atomico pakistano è già stata lanciata sul mercato. Vanta numerosi committenti anche fra quei Paesi arabi tanto vicini all'Occidente quanto lontani dai cosiddetti «Stati canaglia». Le più fresche informazioni di intelligence delineano, infatti, un'inversione di tendenza nel settore della proliferazione delle armi di distruzione di massa dove il tentativo di realizzare un ordigno atomico risponderebbe a un disegno strategico ben definito nell'ottica del contenzioso arabo-israeliano: inchiodare all'angolo Israele ricorrendo a quella «deterrenza nucleare» o al principio del muthual assured distruction (certezza di reciproca distruzione) che nel dopoguerra è stata una costante di stabilità fra Est e Ovest.
Il ragionamento che ha portato nazioni arabe pubblicamente ostili al terrorismo ad abbracciare, comunque, una causa comune ad altri paesi arabi dichiaratamente nemici di Tel Aviv, sarebbe quella della giusta causa: di fronte a una potenza nucleare antagonista - dicono - è giusto che si debba contrapporre un blocco di Paesi che dispongano della stessa arma. Un discorso pericoloso se a mettere sotto pressione Israele, nel prossimo futuro, dovesse prevalere anziché una classe politica moderata, una frangia estremista, come quella che in queste ore detta legge a Teheran.
Report d'intelligence hanno descritto la continua compravendita di vettori in grado di trasportare ordigni nucleari per centinaia o migliaia di chilometri. Numerosi paesi arabi si sono dotati, nel tempo, di missili Shahab3, Hafts-Shaheen, Ghauri, Ghaznavi, Abdali, Tibu e Nodong (coreani). Ognuno ha scelto ciò che i sofisticati sistemi guida consentiti dalle tecnologie dual use permettevano loro, con un raggio d'azione calcolato anche per colpire al cuore Israele. Fra gli analisti d'intelligence questo modus operandi è noto come il «bersaglio a cerchi concentrici»: sia gli stati arabi più vicini, sia quelli più lontani, avendo la capacità di calibrare con esattezza la gittata del missile, sarebbero in grado di polverizzare Israele sferrando un attacco concentrico e neutralizzando qualsiasi possibilità di difesa e/o reazione.
Questi scenari apocalittici tratteggiati dalle Divisioni di contro-proliferazione nucleare dei Servizi occidentali sono stati radicalmente corretti (e vengono continuamente riveduti) all'indomani dello smantellamento del Wmd program (dicembre 2003) a opera del leader libico Gheddafi. Un colpo basso per i fruitori della Bomba islamica poiché ha portato alla luce il gioco del «club del nucleare» che vanta più soci di quanto si immagini, tutti ricollegabili al network di Abdul Qader Khan, padre dell'atomica pakistana, prima arrestato e poi spedito ai domiciliari dopo un pubblico mea culpa che non ha convinto nessuno. Accollandosi tutte le responsabilità per il trasferimento di tecnologia atomica pakistana a Iran, Libia e Corea del nord, Khan ha salvato la pelle e la faccia riuscendo a placare l'ira degli Usa e a salvare gli 007 pakistani.
Eppure, come affermato il 5 febbraio 2004 dal direttore dell'Aiea, Mohamed El Baradei, il signor Khan è veramente la «punta dell'iceberg» dei traffici nucleari. Assieme a un nutrito gruppo di soci in affari, scienziati, ingegneri e militari, avrebbe piazzato nei posti più impensati il know how per la Bomba islamica. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, John Bolton, ha insinuato l'esistenza di almeno altri quattro paesi aderenti al Tnp (Trattato di non proliferazione) che ne hanno violato le regole con l'aiuto della rete di Khan. Ciò vuol dire che Libia, Iran e Corea del nord non sarebbero gli unici beneficiari dei servigi nucleari pakistani. Ciò vuol dire soprattutto che la rete messa in piedi da Khan, segretamente finanziata anche da Paesi arabi moderati, non sarebbe un banale supermarket del nucleare bensì un collante politico-scientifico-religioso per l'islamizzazione dell'ordigno atomico.
Le annotazioni dell'intelligence, a questo punto, si fanno intense e convergenti. In cima alla lista spunta l'Arabia Saudita, dove Khan era di casa, dove si rintracciano finanziamenti al programma nucleare pakistano fin dai primi anni '80 e dove si segnalano recenti acquisti di missili (anche cinesi, modello Df3). Per la cronaca, il principe saudita visitò personalmente i Khan Research Laboratories nell'imminenza dei test nucleari del maggio 1998.
A seguire c'è la Siria, più volte battuta da Khan e dai suoi emissari, con un arsenale di missili Nodong e Scud modificati. Quindi l'Egitto, altro paese meta di viaggi segretissimi dello scienziato pakistano, che stando ai resoconti dei servizi segreti avrebbe trattato l'acquisto di 50 missili nordcoreani e richiesto la collaborazione pakistana per lo sviluppo del proprio programma nucleare relativamente all'ultimazione dell'impianto per la produzione di esafluoruro d'uranio nel sito in Inchas.
Al quarto posto compare l'Algeria con il sito fantasma di Ain Oussera, a 140 chilometri dalla capitale, che ospita il reattore cinese plutonigeno da 15 megawatt di Es Salam. Se ne sospettava l'esistenza da anni, il governo negava con ostinazione parlando solo del sito di Draria, ma la verità è venuta alla luce solo grazie a un cittadino britannico, poi arrestato per spionaggio. Fonti di intelligence europee documentano che il programma avrebbe ben altri fini rispetto alla produzione d'energia per dissalare l'acqua del mare.
Nelle analisi degli specialisti vi è poi un ventaglio di probabili, o accertati, paesi supporter mete dei viaggi di Khan e soci negli ultimi dieci anni. A cominciare dal Kuwait, dal Marocco o dagli insospettabili Emirati Arabi Uniti dove lo scienziato pakistano si sarebbe affidato a oscure transazioni finanziarie recandosi decine di volte nei quattro anni precedenti il suo arresto. Da Dubai era partita per la Libia la nave tedesca Bbc-china, supervisionata da un ingegnere svizzero, intercettata in acque italiane con componenti per centrifughe (tubi alluminio e pompe molecolari) assemblate alla nota Skomi Precision Engineering fra la Malesia e lo Sri Lanka, paese nel quale Khan lavorò parecchio e avviò un'attività di copertura interessandosi al business turistico attraverso l'albergo La Colombe (20 febbraio 2000) di Timbuctu. Nel paese di Sandokan il pirata Khan aveva installato strutture logistiche proprio per la produzione di centrifughe (come poi confermato da Saif al-Isla Gheddafi, figlio del leader libico). A seguire la Corea del Nord (esafluoruro d'uranio e rete del procurement) di cui si sa già in abbondanza. Per non parlare dell'Iran, i cui missili balistici Shahab3 possono oggi raggiungere Israele, o della tecnologia nucleare d'origine pakistana (come si evince da alcune intercettazioni dei servizi segreti israeliani fra ufficiali pakistani e iraniani) applicata per l'arricchimento dell'uranio e del plutonio nei siti sotterranei di Natans e Areak, o in quelli di Parchin e Lavizan. Da Khan il governo di Teheran avrebbe ottenuto una lista di nominativi per il mercato nero del fai-da-te nucleare. Infine il Sudan e la Costa d'Avorio, dove Al Qaida è di casa, proprio come in Afghanistan dove i luogotenenti di Bin Laden avrebbero trattato i segreti atomici con altri sponsor della Bomba islamica, gli scienziati pakistani Sultan Bashir-Ud-Din Mahmood e Chaudi Abdul Majeed.
L'architetto della Bomba islamica ha portato avanti la sua idea per 15 anni, ha violato leggi ed embarghi, ha esportato centrifughe per il trattamento dell'uranio e istruzioni sulla fabbricazione di ordigni nucleari. Ha viaggiato ovunque e ovunque ha avuto ponti d'oro. Non si muoveva solo per soldi, ma per un ideale riassunto nel libro The islamic bomb scritto per lui nel 1998 dallo scrittore-editore pakistano Zahid Malik.
(1. Continua)
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