È calato il sipario sulla ventinovesima edizione dei Giochi olimpici. Due settimane avvincenti che ci hanno tenuto di fronte agli schermi televisivi, con gli occhi puntati sulle gesta di atleti che non hanno lesinato sforzi per la conquista del gradino più alto del podio, quello che regalava l'oro olimpico. Ci siamo entusiasmati dinanzi ai record mondiali dell'uomo ghepardo che corre nel futuro, il ventitreenne giamaicano Usain Bolt, o di fronte alle straordinarie performance dell'americano Michael Phelps, pluridecorato come mai nessuno prima d'ora.
Tutti gli atleti azzurri ci hanno regalato altrettante emozioni infinite: abbiamo gioito per le 28 medaglie conquistate dai nostri ragazzi, accompagnandoli con un moto di orgoglio ogni volta che, in preda all'emozione, cantavano le parole dell'inno nazionale italiano.
Era altresì inevitabile che le Olimpiadi di Pechino si connotassero progressivamente di significato politico, molto più di quanto non è avvenuto solitamente, lasciando sul terreno una scia di polemiche e una serie di interrogativi sul futuro. Resta l'eco delle denunce della stampa internazionale contro la censura e le violenze subite quando telecamere e taccuini cercavano di documentare le dimostrazioni in favore del Tibet, e gli appelli delle organizzazioni internazionali a tenere alta la guardia sulle violazioni dei diritti umani.
Non ho condiviso, pur capendone le ragioni, gli appelli rivolti agli atleti azzurri, invitati, ad esempio, a boicottare la cerimonia di apertura dei Giochi in segno di protesta per il mancato riconoscimento dei diritti umani in Cina. Non è con le provocazioni o con i gesti plateali che si ottengono i miglioramenti che tutti auspichiamo, e bene ha fatto il ministro Frattini a ricordare che le Olimpiadi sono una straordinaria occasione di riconciliazione e di pacificazione mondiale dello sport, da non politicizzare in modo strumentale.
E poi, perché mai i nostri giovani avrebbero dovuto rinunciare al sogno di una vita per coprire la riluttanza della politica? No, non credo fosse quella la strada da seguire. E le parole di Josefa Idem stanno lì, a inchiodarci alle nostre responsabilità: «Mandano avanti noi atleti per fare delle dichiarazioni, perché i politici non hanno coraggio».
È vero: la politica troppo spesso non ha il coraggio di ammettere che il riconoscimento dei diritti umani nel mondo è a tutt'oggi prerogativa di una minoranza del genere umano, che la persona è ancora violata dalla tradizione, dal costume, dalle superstizioni, dalla stessa prepotenza politica.
La comunità internazionale ha il dovere di tenere alta la guardia, senza il timore di affrontare tematiche scomode per paura di suscitare una reazione sdegnata nella controparte chiamata in causa. Meno dibattiti e più fatti significa, ad esempio, subordinare gli accordi commerciali con un determinato Paese al riconoscimento della dignità di ogni individuo, al rispetto dei diritti umani, espressione della più alta civiltà immaginata dall'uomo moderno.
I fattori di criticità a Pechino esistono e sarebbe ipocrita negarlo; ho letto con una certa preoccupazione le dichiarazioni del regista Zhang Yimou, autore della bella coreografia con cui si sono aperti i Giochi, secondo il quale il rispetto dei diritti umani renderebbe l'Occidente inefficiente e non gli consentirebbe di raggiungere gli elevati standard organizzativi e artistici di cui è capace il popolo cinese.
Staremo a vedere quali prospettive potranno ora delinearsi in Cina, se e in che misura le Olimpiadi appena concluse contribuiranno a rendere il Paese più moderno, ma anche più aperto politicamente, più democratico e rispettoso dei diritti delle persone.
Con questi Giochi il mondo ha imparato a conoscere la Cina, e la Cina ha finalmente aperto le sue finestre sul mondo. Le Olimpiadi ci hanno fatto ammirare una nazione all'avanguardia dello sport mondiale.
*sottosegretario
agli Esteri
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.