Il Legionario fiumano e i buoni cavalieri latini

di Gabriele D’Annunzio

Dopo il volgere di quindici anni, dopo la nobile guerra senza tregue e la mia troppo lunga avventura adriatica compiuta nel fraterno martirio, dedico questa sorta di favola volta a volta corale dialogata danzante «ai buoni cavalieri latini di Francia e d’Italia», per arditamente contrapporre una luminosa testimonianza d’amore a certe ombre importune. Se l’insegna del più grande dei Lusignano, del perfetto modello della cavalleria franca nell’Oriente latino, accompagna l’offerta del mio poema ove si raddolcisce il rude verso epico delle origini, non è che per rievocare i giovani francesi morti fra Brenta e Piave, i combattenti del Monte Tomba, le retroguardie di Bassano e di Monfenera; non è che per rievocare i giovani italiani ebbri del sacrificio intero di se stessi per difendere la montagna di Reims in vista delle sante torri.
«È per lealtà serbare».
Il corpo dell’insegna è la Spada dalla lama diritta e dall’impugnatura incurvata verso l’alto, del tutto affine a quelle che si veggono raffigurate sui sigilli dei cavalieri d’Occidente.
Lo spirito dell’insegna è certo questa sentenza, ch’io prediligo più breve nella sua forma pressoché bilingue: Per lealtà serbare.

Tale è ancora scritta a Venezia sulla facciata del palazzo dei Corner di Piscopia, che avevano avuto l’onore d’ospitare Pietro da Lusignano re di Cipro venuto con le sue tre galere incontro al bucentauro dogale nel mare mistico sposo.

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