Cinzia Romani
da Roma
Sprofondato nella poltroncina gialla, il ciuffo di capelli sale e pepe più turrito che mai, laria assente, David Lynch, regista americano classe 1940, a tutta prima pare uno zio rintronato. Ci si è vestito pure, da parente anzianotto un po lento: completo grigio, camicia bianca abbottonata fin sotto la gola, a irrigidire una testa, che invece è brillante e scaltrissima. Se no, che ci farebbero centinaia di ragazzi, dentro e fuori dellAuditorium, pronti a sgomitare, accalcandosi come verso la Pietra Nera, pur di agguantare un posto in sala? È di scena uno degli artisti più moderni che i contemporanei conoscano, tantè che i fratelli Taviani, sfidando il gelo della sera, si son calcati i berretti in testa e sono scesi al Flaminio, ad omaggiare il più giovane collega. Né mancava Verdone, in seconda fila, ad aprir bene le orecchie, nel corso dellincontro con il pubblico promosso da Studio Universal. «È un regista che mi piace molto: ne adoro la follia creativa, la scrittura moderna. Lo conosco personalmente, da quando siamo stati insieme in giuria, a Venezia», spiega Carlo Verdone. Intanto, ragazzetti rasta col turbante di lana guadagnano il sottopalco, una giovane coppia chiede una penna in prestito («Vorremmo prendere appunti»), si abbassano le luci, i fotografi si affrettano a ritrarre i vip seduti in prima fila. Lui, lautore del film di culto Elephant Man (prodotto da Mel Brooks nel 1981), che lo lanciò sul piano internazionale; lui, lex-compagno di Isabella Rossellini, nuda nel celebre Velluto blu da lui diretto nel 1984, storia di perversione che fece gridare allo scandalo il critico Gian Luigi Rondi (presente in sala) e la Mostra del cinema di Venezia (rifiutò il film); lui, testimonial per beneficenza, raccoglie applausi da star. Scorrono sullo schermo le immagini delle sue pellicole, cucite dal filo duna lucida pazzia. E sono mostri, sono puttane, sono Nicolas Cage e Anthony Hopkins, sono gli scarafaggi al rallentatore, sono le lolite texane in hot pants. Tutto quello che fa cinema di Lynch, puro smalto sullorrido nulla che è lesistere, secondo questo pittore e suonatore di tromba, passato al cinema nel 1976, con Eraserhead. «A volte mi viene lidea di un mobile e lo realizzo. Faccio lo stesso con i film. Colgo lidea e me ne innamoro: è lesperienza più bella», comincia a dire, agitando la manona destra espressiva. Invano i conduttori della serata lo incalzano, con domande cinéfile, che lui finge di ascoltare con cura, fissando nel vuoto. «Per me non conta lapproccio intellettuale al cinema. Ho piuttosto lapproccio del buonsenso, che viene dopo lidea. Lidea è il pesce. Ma il cuoco non lha pescato lui, questo pesce. Lo cucina e basta. Può rovinarlo, o esaltarne il sapore. Lidea è il pesce e, se sei un bravo cuoco, lo sai cucinare». Alla faccia di ogni lynchismo, lautore, grande estimatore di Federico Fellini, esemplifica: «Il cinema è suono e immagini, che viaggiano insieme nel tempo. Allinizio, da studente delle belle Arti, in Pennsylvania, volevo fare soltanto il pittore. Una sera, mi misi a dipingere un giardino di notte. Dipingevo e il verde di quel giardino veniva fuori dal buio della notte. Un soffio di vento e il giardino prese a muoversi... Pittura in movimento, col sonoro! Capii che lelemento sonoro definisce quello visivo».
Ma luomo è sagace, è pur sempre quello che, negli Usa, con Twin Peaks ha rivoluzionato il modo dintendere il serial tv. E smorza latmosfera lirica, proclamando la propria passione per il digitale. «Non girerò più con la vecchia pellicola: tutto troppo pesante, troppo ingombrante. Mi sono innamorato del digitale facendo esperimenti sul mio sito», spiega, dopo aver confermato quanto abbia trovato bello «rasare un topo con la crema depilatoria per signore: aveva una pelle così liscia e compatta». Così, «il vecchio cinema è un gioco per dinosauri, poi la pellicola si graffia».
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