La maledizione dei rabbini sul gay pride

da Gerusalemme

Davanti a tutti ci sono loro, i tre superporcellini, muscoli pompati e avambracci depilati, tre cappellacci da cowboy rosa, scintillanti di lamè e lustrini, sotto il raso bianco di tre ombrellini. Regalano baci carezze, slinguate e sculacciate, danzano nel tutù deforme, sollevano i polpacci, offrono il pube scandalosamente prosperoso. Poi gli altri duemila, forse meno, nell’abbraccio soffocante di 7mila poliziotti. Un esercito in settecento metri di sfilata. Gerusalemme assediata, e cotanto rumoroso, sfavillante, orgoglio gay imprigionato nell’asfalto transennato che dall’incrocio di King David Street e Moshe Hess Street sale allo storico King David Hotel.
Da ieri notte Mea Sharim e gli altri quartieri del fondamentalismo ebraico sono in fermento. Certi come sempre di poter disporre degli arcani della cabbala, i capi rabbini di “Eda Haredit” già annunciano «funerali imminenti» per chiunque partecipi o renda possibile la manifestazione. Gli agenti di servizio – consigliano premurosi - «farebbero meglio a darsi malati e risparmiarsi imminenti visite ai reparti oncologici degli ospedali». All’ormai tradizionale maledizione s’accompagna la consueta mobilitazione di tutto l’estremismo religioso ebraico.
I primi sul piede di guerra sono gli haredim, i tradizionalisti ultraortodossi in pastrano nero e cappellaccio calato su barba e treccine. Fosse per loro quei duemila debosciati andrebbero espulsi dalla Citta Santa, mandati a purificarsi da vizi e peccati. Due anni fa a raccogliere i loro inviti ci pensò il signor Yishai Schlissel. Saltò le transenne, si mescolò alla folla, tiro fuori il coltellaccio da cucina, lo affondò nella schiena di tre disgraziati. Loro se la cavarono, ma da allora la polizia non vuole più sorprese. E non ha torto. L’altra notte a Meah Sharim, Givat Shaul, Beit Israel e Beit Vegan si son vissute ore di guerriglia urbana tra cassonetti incendiati, lanci di molotov, gragnuole di sassi e botte da orbi tra agenti e fanatici in pastrano nero.
A rendere tutti più agitati, poco prima della parata, ci pensa un altro giovane invasato sorpreso a girare con un rudimentale ordigno esplosivo. «Volevo farlo esplodere tra le erbacce... tanto per mettere un po’ di paura a quella gente», racconta mentre gli agenti lo portano via.
In King David Street i tre porcellini già guidano il corteo inseguiti dal rutilante, balzellante, starnazzante universo arcobaleno. Due ragazze s’infilano l’un l’altra la lingua in bocca, s’accarezzano le braccia e più giù mentre un girotondo di palloncini multicolori le consegna agli obbiettivi dei fotografi. L’estrema sinistra saltella attorno al bandierone disteso tra i due lati della strada e avanza al grido di “Ha’zot litzod Hi Zhot Herot”, “Il diritto di marciare è un diritto basilare”. Subito dietro un’arrapata pattuglia di lesbiche va più sul concreto: «Di sposarci – strilla – non ce ne frega niente vogliamo solo scopare».
A vegliare su tutti ci pensa Eli Krichman. Ha 62 anni, il barbone bianco, la camicia militare, un liso pantalone d’ordinanza e il sandalo di plastica ai piedi. Su uno scudo di legno ha disegnato una stella di David tutta nera. L’altra mano agita un bastone con sopra piantato lo stendardo arcobaleno.


Eli è stato un paracadutista, ha combattuto sul fronte egiziano, era qui, ricorda, 40 anni fa quando una foto immortalò i suoi commilitoni in preghiera davanti al “muro del pianto” conquistato. «Ora – ti spiega - combatto per i diritti di questi ragazzi, arrivo da Tel Aviv, lo faccio ogni volta... perché questo deve essere un Paese libero».

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