Mascagni e Camilleri binomio da applausi

Cecè Collura in veste lirica ci ha un tantino spiazzato. Bella l'ambientazione, curiosa commistione di proiezioni e di scenografia tradizionale, essenziale e ben congegnata; bravo lui, Danilo Formaggia, cui i panni del protagonista calzavano come un guanto e che molto bene ha reso lo spirito «alla Camilleri», nella recitazione e negli atteggiamenti. Delizioso infine l'omonimo racconto originale, «Che fine ha fatto la piccola Irene», specie se inserito nel suo reale contesto, cioè come parte di un ciclo destinato alla lettura sotto l'ombrellone, in cui i rimandi e le allusioni si rincorrono a dipingere una sola anima, pregna di colore siciliano e di ironia tipica dello scrittore di «Girgenti». Le perplessità arrivano sull'idea stessa di ricavarne un’opera, o meglio una sorta di singspiel, basato sull’alternanza di canto e recitazione: questo indipendentemente dalla musica di Marco Betta, che se rimane nell'ambito di un facile tonalismo, è tuttavia godibile e appropriata a ciò che succede sul palcoscenico. E indipendentemente dalla buona regia di Rocco Mortelliti e dalla già citata scenografia (Italo Grassi). Ciò che manca è - a parer nostro - la peculiarità prima dell'Opera, vale a dire la teatralità, la drammatizzazione, che non può ridursi ad un racconto in musica. Ma veniamo a «Cavalleria Rusticana» di Mascagni, accostata alla breve operina grazie al denominatore comune Andrea Camilleri: sua infatti l’idea registica, realizzata dallo stesso Mortelliti, calibrata e corretta, con una resa scenica delicata, un angolo di Sicilia verace senza orpelli o sbavature: unico appunto, l'agnello di marzapane offerto durante l'Intermezzo, splendida pagina strumentale che richiederebbe l'immobilità scenica - per essere ascoltata, certamente - ma anche e soprattutto per la sua funzione riempitiva durante la messa pasquale.

Quanto all’aspetto musicale, non impeccabile la direzione di Dario Lucantoni, a tratti intensa, ma spesso con stacchi troppo veloci, che hanno creato una sfasatura tra buca e palcoscenico. Brava Giovanna Casolla, che ha restituito una Santuzza tormentata e sanguigna; non particolarmente raffinato Marcello Giordani (Turiddu), vocalmente un po’ eccessivo.

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