La memoria corta di Fassino: «Unipol e Consorte? Non ricordo»

Milano«Non ricordo». «Non ricordo questo dettaglio» «Non ricordo, probabilmente l’ho detto ma sono passati sei anni» «Non è nella mia memoria». E via così. È un Piero Fassino alle prese con consistenti buchi di memoria quello che ieri mattina va a sedersi davanti ai giudici del caso Unipol. È il processo a Giovanni Consorte, ex amministratore delegato dell’assicurazione rossa, e agli altri «furbetti» che lo aiutarono a tentare la scalata alla Banca nazionale del lavoro: ma, inevitabilmente, sul tavolo c’è anche il ruolo in quella scalata dei vertici dei Ds, il partito di Fassino ma anche di Consorte, il vecchio Pci da sempre punto di riferimento del movimento cooperativo e di Unipol, braccio delle Coop nel business delle assicurazioni.
Che i vertici della Quercia guardassero con interesse a quella scalata è cosa arcinota, dimostrata dalla famosa telefonata «Abbiamo una banca!» intercettata tra Fassino e Consorte quando sembrava che l’affare fosse fatto. Ma ieri l’ex leader dei Ds spiega ai giudici che dell’intero pasticcio lui e il suo partito furono spettatori, e non attori: «Non c’era una convenienza del partito che dirigevo. C’era un punto politico, il diritto del movimento cooperativo a non essere figlio di un dio minore, cioè di partecipare con pari diritti alla vita economica del paese».
Per sostenere questa tesi, però, Fassino deve misurarsi con le sue telefonate intercettate durante l’inchiesta (delle quali, a differenza di Massimo D’Alema, non si è mai opposto all’utilizzo, e questo va detto). «A Consorte - dice Fassino al tribunale presieduto da Giovanna Ichino - chiedevo solo le informazioni che mi servivano a farmi una idea e a prendere posizione, perché del tema delle aggregazioni bancarie c’era un dibattito di cui era partecipe la leadership economica e politica del paese, e che il segretario del principale partito di opposizione esprimesse le sue opinioni fa parte delle funzioni di un dirigente politico. Informazioni non segrete, che si trovavano anche sui giornali». Peccato che le telefonate intercettate dimostrino che da Consorte riceveva informazioni dettagliate e riservate. Ed è qui che, alle contestazioni degli avvocati, Fassino inizia ad appigliarsi ai vuoti di memoria.
Come quando gli chiedono di spiegare una frase sibillina relativa ad una «società» di Francesco Rutelli, leader della Margherita («È il prosieguo di quella società loro là»): «Non ricordo a cosa si facesse riferimento». O quando gli chiedono di commentare la conversazione in cui Consorte gli riferisce degli accordi sottobanco con gli spagnoli del Banco di Bilbao («È una cosa che non si può dire oggi, tra dodici mesi, quando la vicenda sarà chiusa»): «Sono passati sei anni, non ricordo». O quando Consorte gli annunciò che Unipol e i suoi alleati avevano raggiunto di nascosto il 51%: «Me lo disse ma non ricordo quando».
Certo, sono passati sei anni. Ma è ragionevole immaginare che nel corso di questi anni Piero Fassino abbia avuto occasione di soffermarsi a ricostruire quale fu il suo vero ruolo nella vicenda. Eppure ieri, seduto davanti al tribunale, sembra che le contestazioni degli avvocati lo prendano quasi alla sprovvista, come se lui di quelle intercettazioni - pubblicate e ripubblicate dai giornali - non si ricordasse davvero.

Una sola intercettazione si ricorda bene, ed è quella in cui - parlando con il solito Consorte - dava senza eufemismi del «deficiente» a Luigi Abete, presidente della Bnl, che avrebbe ridotto la banca ad «un colabrodo». «È un’espressione di cui mi rammarico - dice Fassino ai giudici - e di cui ho già avuto modo di chiedere scusa al dottor Abete».

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