Il multiculturalismo è arrivato adesso a inquinare le statistiche e nel cosiddetto paniere dellIstat, con cui si valuta landamento dei prezzi attraverso loscillazione del valore di mercato dei prodotti di largo consumo da parte degli italiani, è entrato il cibo etnico. Uno legge «cibo etnico» e la prima domanda che si fa è che cosa voglia dire. Poi uno ci pensa un poco e immagina che i connazionali frequentino in massa ristoranti cinesi, giapponesi, messicani. Ci ripensa un po e si convince che in quei ristoranti etnici ci va a mangiare una minoranza di persone e che un importante istituto come lIstat non possa prendere in considerazione il cibo che si compra in quei ristoranti. E infatti le sue osservazioni non fanno una piega.
A questo punto il mistero sul cibo etnico diventa sempre più fitto, così da lasciare smarrita la persona che si interroga su cosa diavolo sia: diventa perciò più che umano se da un momento allaltro sbottasse in un «chi se ne frega del cibo etnico». Invece dovrebbe preoccuparsene, perché gli indici dellIstat condizionano in prospettiva la sua borsa, il suo potere dacquisto. E la sua preoccupazione dovrebbe anche aumentare una volta che venga a sapere da me cosa sia questo cibo etnico entrato nel paniere dellIstat. Svelo il mistero: il cibo etnico è il kebab. Proprio quel pezzo di carne che per essere cotto ruota infilzato a uno spiedo, che viene tagliato con un coltellaccio a fette sottili destinate a imbottire un panino. Chi se lo mangia il kebab? Il marocchino o qualche figlio di ex sessantottini che non si è ancora emancipato dellideologia dei genitori.
Insomma, lIstat si è inventato il buonismo statistico: non cè altra spiegazione per capire come sia finito il kebab nel suo paniere. E così dopo il cibo, dovremo aspettarci labbigliamento e attenderci fra poco linteresse per le variazioni del prezzo del burqa e di altri indumenti etnici dei nostri immigrati islamici.
Cè stata una protesta della Coldiretti, dellAssociazione consumatori, nella legittima preoccupazione che non vengano messi in secondo piano i prodotti italiani nella valutazione delle loro variazioni di prezzo: pizza e non kebab, gonne e non burqa. Ma al di là della disputa dai caratteri nazionalistici, che rischiano di trasformarsi in un protezionismo fuori dal tempo, che non è certamente nelle intenzioni delle associazioni sopra ricordate, quello che lascia perplessi è lidea alla base della decisione dellIstat di mettere il kebab nel suo paniere. Appunto, un multiculturalismo statistico che si potrebbe giustificare soltanto se il multiculturalismo fosse diventato un modello del nostro sviluppo sociale o se la vendita di kebab stesse entusiasmando i consumi alimentari degli italiani. Improbabile questo secondo tema, non rimane che il primo.
Lidea di una società multiculturale ha avuto i suoi sostenitori alcuni anni fa. Si pensava che il giusto destino dellOccidente fosse quello di smantellare i punti di forza della sua tradizione e delle sue specificità identitarie per integrare usi, costumi, moralità e religioni provenienti dagli immigrati non occidentali. Unidea così utopistica che non trovò mai e in nessun luogo un minimo di realizzazione. Dunque, fallita lideologia multiculturalista, è rimasto il buonismo esistenziale di chi considera gli immigrati sempre comunque brava gente da giustificare anche quando commettono i crimini peggiori, perché in noi bianchi è rimasta la tara di colonizzatori e, quindi, di sfruttatori.
Ognuno la pensi come vuole se non costringe gli altri a pensarla come lui, però le statistiche dellIstat non sono un fatto personale, non possono rappresentare una rivincita del multiculturalismo dopo il suo fallimento e neppure possono essere un pensiero gentile che deve rivolgersi con amore alle associazioni islamiche.
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