Non c’è ragione senza bellezza

Anticipiamo un brano del nuovo libro del filosofo britannico. Una profonda riflessione su un concetto all’apparenza ostaggio dei gusti personali. Ma che fa dell’uomo ciò che è

Non c’è ragione senza bellezza

C’è un’idea intrigante di bellezza che risale a Platone e a Plotino e che è stata accolta con modalità diverse nel pensiero teologico cristiano. Secondo questa idea, la bellezza è un valore ultimo – qualcosa che perseguiamo di per sé e per la cui ricerca non occorre avere altre ragioni. La bellezza dovrebbe, dunque, essere paragonata alla verità e alla bontà, quale componente di una triade di valori ultimi che giustificano le nostre inclinazioni razionali. Perché crediamo in p? Perché è vero. Perché vogliamo x? Perché è buono. Perché osserviamo y?

Perché è bello. Secondo i filosofi queste risposte si pongono in qualche modo sullo stesso piano: ciascuna determina uno stato mentale nell’ambito della ragione, collegandolo a qualcosa che, in quanto esseri razionali, è nella nostra natura cercare. Chi domanda: «Per quale motivo bisognerebbe credere in ciò che è vero?» o «Perché si dovrebbe volere ciò che è buono?» non coglie la natura del ragionamento. Non coglie cioè il fatto che, se vogliamo in qualche modo giustificare le nostre convinzioni e i nostri desideri, le nostre ragioni devono essere radicate nel vero e nel buono.
Vale lo stesso per la bellezza? Se qualcuno mi domandasse: «Perché ti interessa x?», «Perché è bello» sarebbe una risposta definitiva, una di quelle che sfuggono alle controargomentazioni, come avviene per le risposte «Perché è buono» e «Perché è vero»?

Affermare una cosa simile significa ignorare la natura sovversiva della bellezza. Chi è affascinato da un mito può essere tentato di crederci, e in questo caso la bellezza è nemica della verità. Un uomo attratto da una donna può avere la tentazione di perdonarle i suoi vizi, e in questo caso la bellezza è nemica della bontà. La bontà e la verità non si contrappongono mai, tale è l’ipotesi da cui partiamo, e la ricerca dell’una è sempre compatibile con il giusto rispetto dell’altra. La ricerca della bellezza, invece, è di gran lunga più dubbia. Da Kierkegaard a Wilde, l’aspetto «estetico» dell’esistenza, in cui la bellezza viene ricercata come valore supremo, si pone in contrasto con una vita di virtù. L’amore per i miti, le storie e i rituali, il bisogno di consolazione e di armonia, il desiderio profondo di ordine attirano le persone verso convinzioni di tipo religioso, a prescindere dal fatto che queste convinzioni siano vere. La prosa di Flaubert, il linguaggio immaginifico di Baudelaire, le armonie di Wagner, le forme sensuali di Canova vengono accusate di immoralità da chi ritiene che ritraggano la malvagità con tinte allettanti.

Non occorre sottoscrivere tali giudizi per riconoscere la validità della loro tesi. La condizione della bellezza come valore ultimo è discutibile, mentre non lo sono la condizione della verità e quella della bontà. Diciamo, quantomeno, che questo particolare cammino verso la comprensione della bellezza non è facilmente percorribile per il pensatore moderno. La sicurezza con cui un tempo i filosofi lo seguivano è dovuta al presupposto, reso esplicito già nelle Enneadi di Plotino, che la verità, la bellezza e la bontà sono attributi della divinità, modalità con cui l’unità divina si rende manifesta all’anima umana. Questa visione teologica è stata elaborata a beneficio del mondo cristiano da san Tommaso d’Aquino, e inserita nell’ampio e acuto sistema filosofico che lo ha reso giustamente famoso. Non si tratta, però, di una visione che possiamo accettare, e per il momento propongo di tralasciarla, prendendo in esame il concetto di bellezza senza avanzare pretese di carattere teologico.

Vale comunque la pena di soffermarsi sulla costruzione filosofica dell’Aquinate, dal momento che va a toccare una difficoltà profonda insita nella filosofia della bellezza. San Tommaso riteneva che il vero, il bene e l’uno fossero dei «trascendentali» – categorie del reale presenti in tutte le cose, in quanto aspetti dell’essere, modi in cui il dono supremo dell’essere si rende manifesto all’intelletto. La sua concezione della bellezza è più implicita che dichiarata; ciononostante, egli scriveva come se anche la bellezza fosse uno di questi trascendentali (il che ribadisce il punto già evidenziato, ossia che la bellezza appartiene a ogni genere di cose). San Tommaso, inoltre, pensava che la bellezza e la bontà, in fin dei conti, coincidessero, trattandosi di modi distinti di cogliere razionalmente una singola realtà positiva. Se è così, però, che cos’è la bruttezza, e perché la rifuggiamo? E come è possibile che ci siano delle bellezze pericolose, delle bellezze che corrompono e delle bellezze immorali? O, se cose del genere sono impossibili, perché lo sono e che cosa ci induce a pensare il contrario?

Non sto sostenendo che san Tommaso non avesse una risposta a queste domande. Esse, tuttavia, illustrano le difficoltà incontrate da qualsiasi filosofia che ponga la bellezza sul medesimo piano metafisico della verità, al punto di radicarla nel cuore dell’essere in quanto tale.

La risposta naturale consiste nell’affermare che la bellezza è una questione che concerne l’apparenza, non l’essere; e forse anche che, occupandoci della bellezza, analizziamo l’opinione della gente, anziché la struttura profonda del mondo.

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