Norma superata con effetti nefasti: la produttività bloccata da 15 anni

È necessaria una revisione che non ceda a compromessi o si allargherà ancor di più la forbice tra noi e l’Europa

Norma superata con effetti nefasti: la produttività bloccata da 15 anni

Quali sono le conseguenze dell’articolo 18 per il sistema produttivo? Il dibattito su questo punto cruciale non sembra mai decollare.
Da un lato ci sono i conservatori, che difendono l’articolo 18 come segno di civiltà a tutela del diritto al lavoro. La Zuppa di Porro del 3 febbraio ha sfatato un po’ di falsi miti. Non si sa bene da dove derivi questo diritto all’illicenziabilità, o come sia possibile che contemporaneamente una lauta minoranza ne sia privata. Ma soprattutto non si capisce come questo diritto possa essere indiscutibile anche quando limita un altro diritto, quello dei disoccupati a trovare un lavoro.
La difesa dell’attuale normativa è terreno fertile per la categoria dei «benaltristi». Il problema è ben altro, ci dicono: creare nuovo lavoro, possibilmente non precario, ai giovani, non toglierlo a chi ce l’ha. Gli stessi «benaltristi» erano attivissimi quando si discuteva la riforma pensionistica: asserivano che allungare l’età lavorativa toglieva chance di nuovo lavoro! La dialettica benaltrista è micidiale per un dibattito serio. L’articolo 18 è un tabù da eliminare dalle trattative per ridurre la flessibilità. Che, per inciso, negli ultimi anni ci ha garantito tassi di disoccupazione migliori del resto d’Europa (a fronte di tassi di crescita peggiori).
Dall’altro lato ci sono i riformisti, che sembrano rivoluzionari ma sono invece assai cauti. Manifestano indifferenza verso l’articolo 18 (è benaltrismo strategico, da non confondere con quello puro), poi dicono che l’impossibilità di licenziare ex post spaventa le aziende facendole assumere meno ex ante, frena gli investimenti e allontana le imprese straniere. Bisognerebbe invece permettere di licenziare per motivi economici e introdurre dei sussidi di disoccupazione a tempo o alla prima offerta di lavoro (anche rifiutata).
Sono argomenti sacrosanti ma non riescono a fare breccia fra i cittadini. E il benaltrismo ha di nuovo gioco facile: permettere di licenziare può solo favorire la disoccupazione, non certo attirare l’occupazione, e ci costerebbe pure per finanziare i sussidi. Persino sedicenti liberali di sinistra cascano (volentieri) nel tranello. E l’abolizione dell’articolo 18 diventa un totem: secondo i conservatori basta semplificare un po’ le normative e mantenere la cassa integrazione (che disincentiva la ricerca di un posto migliore e incentiva il lavoro nero).
A ben vedere, i riformisti avrebbero un argomento assai più forte e più comprensibile. La produttività deriva dagli incentivi: da come la paga dipende dai meriti e da come i meriti influenzano le chance di continuare il rapporto di lavoro. È superfluo dire che i rigidi meccanismi di contrattazione lasciano ben poco spazio: i salari italiani crescono con l’anzianità, non con la produttività, ed è solo un aspetto della prevalenza della gerontocrazia sulla meritocrazia. Il secondo punto è neutralizzato proprio dall’articolo 18. Che incentivi può avere chi non potrà mai essere licenziato e il cui stipendio crescerà in modo indipendente dalla produttività? Domanda retorica, che nasconde una buona fetta del gap di produttività del nostro sistema industriale e del nostro apparato pubblico, che amplifica rigidità salariali e contrattuali (ma guai a parlare di fannulloni...). Il primo grande motivo per cui l’abolizione dell’articolo 18 spingerebbe la crescita e l’occupazione è che risveglierebbe la produttività e la creazione di nuove imprese e di nuovo lavoro, più produttivo e quindi meglio pagato.
La crisi attuale ci obbliga a riformare il lavoro. Se l’austerità fiscale dominerà i destini dell’euro ci aspetta un lungo periodo di vacche magre, che non siamo attrezzati ad affrontare. La produttività è bloccata da quindici anni in Italia mentre galoppa altrove, affossando la competitività e le chance di crescere e creare lavoro. Si parla da tempo di un contratto unico per le assunzioni future, che sostanzialmente abolisca l’articolo 18 solo per pochi anni, con risarcimenti in caso di licenziamento nel periodo iniziale, e un ritorno alla normativa vigente dopo. La proposta è un passo in avanti che potrebbe trovare consenso adeguato fra parti sociali e Parlamento.

Ma l’effetto deleterio dell’articolo 18 si ridurrebbe solo in modo marginale. Fornero finora non ha sbagliato una mossa. Confidiamo che non si accontenti di compromessi nella riforma più importante che si appresta a fare.
federico.etro@unive.it

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