di Roberto Chiarini
Tra cronaca e storia c’è sempre di mezzo una terra di nessuno in cui è difficile per tutti orientarsi. I quotidiani ci schiacciano sull’attualità, sull’evento che oggi ci incuriosisce (o addirittura ci stordisce) ma che domani scompare: sulla notizia in definitiva che non riesce quasi mai a farsi storia. I libri di storia, invece, ci portano indietro nel tempo, a conoscere e meditare eventi, personaggi, processi del passato troppo lontani e inattuali per esserci davvero d’aiuto a costruire una traiettoria unitaria che doti di senso il movimento che arriva sino a noi. Tra un passato morto e un presente fin troppo vivo ci resta in genere un tempo recente indecifrabile, perché ancora troppo palpitante per non rimanere confinato nella memoria impressionistica costruita sui giornali e non ancora abbastanza depositato per prestarsi ad una valutazione più meditata. Il rischio allora è di diventare prigionieri delle frammentarie notizie raccolte nell’immediato, ordinate sulla base di suggestioni ed emozioni figlie di una stagione politica o culturale ormai tramontata. Fare ordine e ridare il posto che merita a ogni pagina del passato diventa allora un compito, difficile eppur imprescindibile, che tocca allo storico, se non si vuole che la memoria collettiva si impicchi alle passioni vissute di chi quelle vicende ha vissuto e che vorrebbe consegnarci direttamente senza sottoporre il ricordo ad alcuna verifica e senza inquadrarlo in un contesto più ampio. Ne consegue che chiunque abbia un minimo di serenità di giudizio non possa, ad esempio, aderire all’idea che quella della Prima Repubblica sia stata una storia tutta costruita dalle malefatte di una partitocrazia corrotta, di uno Stato preda della mafia, di varie massonerie intente a tramare oscure congiure a danno della democrazia, di poteri forti e di servizi segreti decisi a piegare a loro vantaggio i poteri legittimi, come purtroppo si è cercato di avvalorare sull’onda del terremoto politico seguito a Tangentopoli. Parimenti, come nessuno è disposto più - si spera - a sottoscrivere il giudizio sugli «anni di piombo» formulato a caldo da uno dei suoi protagonisti come «formidabili», così è augurabile che si convenga sul rigetto della qualifica, passata in giudicato, dei successivi anni Ottanta come «infami», perché contrassegnati da un’irrimediabile involuzione antidemocratica e da un deplorevole degrado del costume e della morale civica. Un giudizio tanto denigratorio e ingeneroso quanto sbrigativo, riconducibile a quel fortunato slogan «Milano da bere» - con cui si è cercato di etichettare spregiativamente la «capitale morale » d’Italia di quegli anni ma che si intendeva calzasse a pennello all’intero Paese. È culturalmente serio, è politicamente accettabile consegnare mani e piedi la propria memoria di un intero decennio ad uno giudizio di tal fatta? Depuriamo pure la lettura del decennio dalla valenza moralistica implicita nello slogan della «Milano da bere », che spinge a considerare quella stagione come unicamente contrassegnata da frivolezza, sguaiataggine, vacuità: vizi tutti appuntatisi nella figura dello yuppie, emblematica di gretto egoismo, di corsa al facile guadagno, di irresponsabile ottimismo. Resta il fatto che non si può demonizzare un’intera fase della nostra storia con una banale etichetta prima ancora di averlo analizzato e studiato. È quanto in effetti si è apprestato a fare con animo sgombro da vieti pregiudizi e con uno sguardo a tutto campo sui vari aspetti del vivere collettivo un storico serio come Marco Gervasoni nella sua Storia d’Italia degli anni Ottanta (Marsilio, pagg. 252, euro 20). Già il sottotitolo «Quando eravamo moderni» ci suggerisce che l’autore non ha intenzione di aggiungersi al coro di quanti in questi anni hanno pensato di aver chiuso i loro conti con il penultimo decennio del secolo corso seppellendolo nella tomba di un facile moralismo. Esaminata con la lente ravvicinata dello studioso e con un’attenzione rivolta non tanto alla politica politicienne dei partiti ma alla sottostante dinamica economica, sociale, culturale del paese, la pagina scritta dagli anni Ottanta non ci pare più quella della «degenerazione morale» del Paese, ma piuttosto della prorompente irruzione anche da noi della modernità post-industriale. Sono gli anni, sì, dell’edonismo, della ritrovata voglia di vivere dopo i funerei anni di piombo, del perseguimento della soddisfazione personale dopo le ubriacature ideologiche collettive, della «nuova voglia di lavorare, di produrre e competere » dopo la sbornia di un egualitarismo svincolato da ogni senso di responsabilità, della critica ai partiti, della spettacolarizzazione e personalizzazione della politica, della caduta della militanza, della crisi del politico, del leghismo. Ma sono anche gli anni di un «nuovo Rinascimento», del passaggio da un’economia delle manifatture a una del terziario - centrata su moda, design, pubblicità, televisioni, finanza - , di una nuova borghesia,dell’aggancio dell’Italia ai processi e alle tendenze imposte da una globalizzazione incipiente.
Una storia «di splendori e di miserie » - come annota Gervasoni- ma che segna anche il passaggio epocale tra due stagioni della vita economica e sociale nazionale nonché tra «due universi politico-culturali molto diversi», eppure in linea con l’orientamento dei nuovi tempi dominante in tutto l’Occidente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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