Pannella: «Dal leader dell’Unione buone intenzioni ma niente fatti»

«Principi giusti, ma voglio progetti di legge. Sì alla pubblicazione delle intercettazioni: è meglio del segreto»

Adalberto Signore

da Roma

È da questa estate che i maggiori quotidiani italiani pubblicano intercettazioni di colloqui telefonici tra politici e top manager, aprendo uno squarcio sui rapporti tra i partiti e i grandi movimenti della finanza italiana. Oggi la politica grida allo scandalo e chiede regole certe che garantiscano il segreto istruttorio. Marco Pannella, lei cosa ne pensa?
«Guardi, è necessaria una premessa. Noi radicali abbiamo sempre dimostrato di saper difendere a qualsiasi costo le regole fondamentali dello Stato di diritto affinché, in nome della legalità, le leggi in vigore siano rispettate davvero. Su questo abbiamo fatto più di una battaglia e il caso di Enzo Tortora è forse quello più conosciuto. Ma penso anche alle riforme costituzionali che limitarono fortemente l’impunità parlamentare riconducendola a una immunità, anch’esse il risultato di una battaglia esclusivamente nostra».
E oggi che succede?
«Oggi noi constatiamo che le leggi e le regole sono costantemente violate, in primo luogo dalla Corte costituzionale. Siamo in uno Stato che da partitocratico è diventato oligarchico e dove la lotta politica è senza regole fino a coinvolgere le fazioni della magistratura. Sicché accade che nulla è segreto al livello dei vertici oligarchici, che spesso trattano fra di loro su come comporre i loro conflitti. Ecco, in questa situazione non posso che constatare che, nonostante l’alibi della segretezza, in questi anni non c’è mai stato un magistrato che è stato punito per la violazione del segreto istruttorio, perché - va detto - è il magistrato che consente al giornalista di pubblicare verbali secretati. Vige, insomma, la regola che si può fare. È una legge di fatto».
Insomma, non si scandalizza?
«Nel corpo malato della democrazia italiana, il fatto che queste carte, che altrimenti sarebbero limitate a una stretta oligarchia di cento o duecento persone, vengano conosciute da dieci milioni di italiani lo ritengo sicuramente un anticorpo, qualcosa che toglie potere alle oligarchie. Oggi ci sono delle realtà che ufficialmente sono riservate a quelle cento o duecento tra vestali e chierici che poi si ricattano e si accordano. Allora, da liberale quale sono, ritengo che non sia un male che questo genere di segreti non siano più tali. Premesso che questo è il regime dell’illegalità, in cui nessuna regola è rispettata, nemmeno quelle che riguardano il presidente della Repubblica o i presidenti delle Camere, allora dico: ben venga qualcosa che era destinato solo alle mens avvelenate di pochi eletti e che invece arriva in casa di tutti».
Secondo lei in questo modo i cittadini sono più garantiti?
«Non parlo di garantismo. Dico che così si produce più diritto, più informazione, più conoscenza di se e del proprio tempo. Soprattutto se l’alternativa è che quelle informazioni se le amministrino cinque magistrati, cinque pentiti e cinque giornalisti come è avvenuto con Tortora».
Che cosa ne pensa dell’intervento di Romano Prodi che chiede di fissare i confini tra politica e affari e invoca più trasparenza?
«Leggo che tutti ne parlano molto bene».
È d’accordo?
«Quando mi presenterà i progetti di legge sui quali ci si impegna per le elezioni, traducendo in norme tutte queste buone intenzioni che non possono che essere di tutti, allora ne riparliamo. Ma non ho capito, ma c’è qualcuno che dice che non ci debbono essere confini? Le risulta? Prodi enuncia un principio giusto che poi non si principia mai. Si autosoddisfa».
Mi pare di capire che per lei quella di Prodi è solo un’enunciazione generica...
«Guardi, io spero entro pochi giorni di avere una proposta concreta sulle regole che servono per attuare queste buone intenzioni. Altrimenti succede quello che, diciamo per distrazione, è accaduto in cinque anni di governo di centrosinistra. Nei quali mi pare che sul problema del conflitto d’interessi ci si sia un po’ distratti. Ecco, non vorrei che, trovati i giusti principi, ci si distraesse di nuovo».
La stupisce quanto sta emergendo dei rapporti tra Unipol e i vertici dei Ds?
«Vede, ho sempre combattuto quello che in Italia denunciamo come “monopartitismo imperfetto”, al cui interno ci sono continui conflitti tra “palermitani” e “corleonesi”. Oggi si dimostra che il povero Bettino Craxi - che pure anche tante cazzate aveva fatto - alla fine aveva visto giusto denunciando e documentando che queste cose le facevano tutti».
Cosa intendeva dire Craxi?
«Che il consensus, l’unanimità contro o a favore di comportamenti vietati dalla legge, diventa una sorta di forma legislativa che annulla la legge stessa e fa, appunto, prevalere l’accordo complice di chi così usa il potere di fatto. Oggi abbiamo la conferma che la caduta di Craxi, del Psi, della Dc, del Pri, del Pli e dello stesso Psdi divenne lo strumento attraverso il quale quel regime alla fine denunciato da Craxi potesse proseguire e resistere come potere oligarchico».
E si riapre la questione morale. E stavolta anche a sinistra.
«Ma scusate, che state scoprendo? Per vent’anni da Radio Radicale abbiamo parlato di cooperative rosse e bianche, dei bilanci truffaldini dello Stato, delle spartizioni di stampo mafioso. Non le condannavamo mica moralmente, le condannavamo politicamente in nome di un’altra etica politica. Ora dovrebbe essere più chiaro che quelli della “diversità morale” non erano affatto tali ma erano espressione di una unità antropologica che continua e sta ormai andando in putrefazione.

In questo panorama, c’era solo una “piccola etnia”, quella radicale, che non viveva secondo conformità antropologica di ladri e truffatori ma seguendo una laica ricerca di maggiori verità e di soluzioni dei grandi problemi sociali secondo diritto e libertà».

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