La paura di dire che l’Italia è in guerra

«Un gruppetto di aggressori ha cominciato a sparare da lontano con i fucili», ha spiegato il generale Camporini a proposito della morte del caporalmaggiore Miotto: «Uno scambio di colpi come ne avvengono di frequente. (…) Purtroppo uno di loro, appostato in un angolo nascosto, ha esploso un colpo che ha centrato l’alpino Miotto. Un proiettile solo, un tiratore isolato, che non sappiamo se per la sua abilità o per pura fortuna, ha preso in pieno il nostro caporalmaggiore. Tecnicamente, questa si chiama opera di un cecchino. Non abbiamo nascosto nulla». Già. Ma, «tecnicamente», uno scontro fra uomini armati durato mezz’ora, come poi si è saputo, è un conflitto a fuoco. Il generale si dice «molto amareggiato per il fatto che ogni volta si cerca di far credere che la Difesa vuole subdolamente occultare chissà quali avvenimenti», e non voglio aumentare la sua amarezza. Non è colpa sua se in Italia l’esercito non può raccontare con precisione le guerre alle quali partecipa. E non si tratta di segreti militari, ma dell’equivoco di partenza per cui le si chiama «missioni di pace».
Il caso più clamoroso fu la nostra partecipazione alla «missione di pace» in Somalia. Solo in ritardo, e quasi di sfuggita, si seppe che il nostro contingente, dovendosi difendere dai guerriglieri, ne uccise più di mille. E anche i nostri media hanno sempre glissato su una simile cifra. Non è questione di governi: è accaduto nei governi Prodi e, come ammette lo stesso Ignazio La Russa, anche nei governi Berlusconi: «È il riflesso di un vecchio metodo», afferma il ministro, «io preferisco raccontare quanto succede con la massima trasparenza». Giusto. E la prima verità da raccontare è che le missioni di pace consistono nel fare la guerra. Del resto, un antico motto latino recita: «Se vuoi la pace, prepara la guerra». Tutti lo conoscono, e basterebbe tenerne conto, per ammettere a noi stessi che i nostri soldati sono spesso in missione anche per combattere, e che nei combattimenti si muore. Si può parlare quanto si vuole di «regole di ingaggio»: quando vieni attaccato – in Afghanistan succede tutti i giorni – si risponde sparando, e allora è guerra.
L’equivoco, e la distorsione nel raccontare la guerra, nascono dall’articolo 11 della nostra cara vecchia, idealistica Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Dove è chiaro soltanto che l’«Italia ripudia la guerra», mentre ci si attorciglia su cosa sia consentito.
Vi si aggiunga che non siamo un popolo e uno Stato di grandi tradizioni militari, anche se nell’ultimo secolo e mezzo abbiamo combattuto parecchio: tre guerre di indipendenza, la guerra civile fra briganti e militari nel 1860-63, tre coloniali, due mondiali, più la partecipazione alla guerra civile spagnola. Quelle del 1915-18 e del 1940-45 ci sono costante tanti dolori e lutti che abbiamo deciso, saggiamente, di ripudiare la guerra. Poi, altrettanto saggiamente, abbiamo deciso che un grande Paese non può astenersi dal partecipare – con soldati volontari – alla soluzione di situazioni di crisi che, se lasciate a se stesse, senza partecipazione internazionale, porterebbero a danni maggiori.
Però continuiamo a volerci raccontare che i nostri soldati portano, sì, aiuti umanitari – protezione civile, ospedali e quant’altro – senza ammettere che di fronte a un nemico che spara non ci sono regole d’ingaggio e volontà umanitaria che tengano. La massima «Si vis pacem, para bellum» viene dal libro III dell’Epitoma rei militaris di Vegezio, composta alla fine del IV secolo.

Meglio sarebbe citare, d’ora in poi, Cornelio Nepote (Epaminonda, 5): «Paritur pax bello», cioè «la pace si ottiene con la guerra», e meglio ancora il Cicerone della VII Filippica: «Si pace frui volumus, bellum gerendum est», «Se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra». Per quanto triste sia, la verità - soprattutto quando ci sono in ballo vite umane - è un atto dovuto.
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