Camera di consiglio infinita sull'ergastolo per Bossetti

Oltre 12 ore per la Corte d'assise d'appello: in otto tra giudici e giurati popolari decidono il destino di un uomo

È difficile, dannatamente difficile condannare un uomo all'ergastolo. Anche se si chiama Massimo Bossetti, anche se è accusato di un delitto terribile come l'uccisione di Yara Gambirasio, anche se contro di lui è stata emessa una condanna anticipata dai media e dall'opinione pubblica; anche se già una volta, in primo grado, le prove contro di lui sono state sufficienti a farlo dichiarare colpevole.

Eppure ieri la Corte d'assise d'appello che a Brescia deve esaminare il ricorso del carpentiere di Mapello contro la condanna al carcere a vita si blocca in una camera di consiglio interminabile. Giudici e giurati che alle dieci del mattino, dopo avere ascoltato le ultime dichiarazioni dell'imputato, si erano chiusi in camera di consiglio per deliberare, a tarda sera sono ancora chiusi dentro. La lettura della sentenza, inizialmente annunciata per le 18 viene spostata alle 20, poi addirittura alle 22. È il segno inequivocabile non solo di una decisione sofferta ma anche di una spaccatura profonda tra gli otto uomini e donne chiamati a prendere la decisione. Qualcuno non accetta di considerare Bossetti colpevole, qualcuno lo considera un assassino. Il braccio di ferro è l'unica spiegazione di una attesa così lunga.

I giudici e la giuria popolare sono in camera di consiglio dalle dieci del mattino, quando il processo di appello si è chiuso come si era chiuso quello in primo grado, con le ultime parole dell'imputato. Anche ieri Bossetti punta su se stesso, sulla sua storia di persona normale, sui quarantaquattro anni senza ombre passati prima di essere arrestato con l'accusa di essere «Ignoto 1», quello che ha lasciato il Dna sulla ragazzina di Brembate.

Ieri, come un anno fa al primo processo, Bossetti lancia la sua rivendicazione angosciata di innocenza, allo stesso modo in cui i suoi avvocati nelle loro arringhe sono tornati a evocare le tante anomalie dell'inchiesta. Ai giudici di primo grado, a Bergamo, erano bastate nove ore per dichiararlo colpevole. Ieri, dopo dodici ore, ancora nulla trapela dalla grande stanza dove la Corte d'assise d'appello è riunita.

Alla Corte d'assise d'appello era chiesto un atto di fiducia nella scienza, e proprio su questo atto potrebbe essersi verificata la spaccatura, nonostante le certezze ostentate in aula dalla pubblica accusa. «Di solito - aveva detto il procuratore generale Marco Martana nella sua requisitoria - ci si deve accontentare di risultati più modesti, a volte è possibile che il Dna di una persona lo abbia anche un'altra su cinque miliardi. Qui questa possibilità non c'è». La certezza che sui leggins e gli slip di Yara Gambirasio ci fossero le tracce biologiche di Bossetti secondo al Procura tende all'infinito: 99 virgola nove periodico. E i tanti dubbi sul modo in cui il campione è stato analizzato, sugli esperimenti che lo hanno distrutto per sempre, impedendo la possibilità di un nuovo esame, non scalfiscono questa certezza.

Altro non c'era: ma questa certezza per la Procura generale basta a condannare Bossetti. Nel chiuso della camera di consiglio qualcuno ha forse provato a sollevare dubbi, a chiedere quante volte la scienza si è sbagliata, a ricordare come anche l'accusa abbia ammesso che a volte i responsi del Dna ingannano. Qualcuno può avere detto che serve un movente, che servono testimoni. Che serve capire cosa accadde in quei cinquecento metri che separano la palestra di Brembate, dove secondo l'accusa Bossetti offre un passaggio alla ragazzina, dalla casa dei Gambirasio, dove Yara non arriva mai. «Una frase o un gesto sbagliati», dice l'accusa.

Di che tipo, su cosa? Nel furgone o sul campo, Bossetti colpisce Yara alla testa, poi la ferisce con una lama: ma così maldestramente da tagliarsi anche lui. Basta il Dna per scavallare questi dubbi? Solo nella notte arriva la risposta.

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