di Se all'indomani delle elezioni politiche del 2013 il governo di grande coalizione aveva un senso, alla luce di quanto accaduto nel corso dell'ultimo anno sorgono seri dubbi sulla situazione di eccezionalità che viviamo. Renzi, ha sostituito Letta a Palazzo Chigi e ha trasformato nei fatti il governo di coalizione in un monocolore. Inizialmente in tanti, come chi scrive, hanno deciso di sostenere ugualmente il tentativo di Renzi.
Alla prova dei fatti, però, sono proprio venuti meno i presupposti della faticosa collaborazione fra Pd e moderati alternativi alla sinistra per il buon governo del Paese. Negli ultimi mesi, infatti, ogni provvedimento messo in campo dall'esecutivo ha avuto più l'obiettivo di contribuire alla prosecuzione «delle primarie» del premier che non il bene comune. Il bonus di 80 euro, per esempio, ha concorso al risultato elettorale delle Europee, ma davvero poco a far ripartire i consumi interni, scesi del 2,6% nel mese di giugno. La legge di Stabilità proposta fa il resto. Al netto delle efficaci slide con cui si promettono 18 miliardi di riduzione fiscale, nelle pieghe della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza - che precede la manovra del governo e ne traccia il solco - si prevede entro il 2018 un aumento della pressione fiscale. A pagina 29 della Nota si legge che dai 781 miliardi del 2013 si arriverà, #passodopopasso, a 854 miliardi di fine legislatura. Sui contribuenti, insomma, peseranno 72,5 miliardi in più di tasse. Anche a fronte di un aumento della spesa pubblica di oltre 41 miliardi. Con buona pace di chi continua a parlare di spending review .
Del resto le scelte operate finora dal governo non hanno affatto contribuito alla riduzione delle spese di funzionamento. Le Province non sono state abolite e la proposta di riforma costituzionale in discussione in Parlamento non ne prevede la soppressione. I Comuni sotto i mille abitanti dovevano essere obbligati ad unirsi, ma la legge Delrio ha salvato un quarto degli attuali 8 mila municipi. Di macroregioni, poi, non si parla più. È del tutto evidente che il premier, preso il governo al grido di «tagliamo i costi della politica», non ha la minima intenzione di aggredire i circa 3 miliardi spesi annualmente per le istituzioni locali e le 144.591 cariche elettive. La legge di Stabilità si limita solo a perpetuare i tagli ai trasferimenti a Regioni e Comuni. «Anche loro piangano», sembra dire la nuova classe dirigente del Pd. Peccato che dal 2008 i tagli hanno inciso sul 38% della spesa primaria delle Regioni e solo sul 12% di quella dello Stato. E gli ulteriori «tagli» annunciati continuano a colpire indiscriminatamente gli enti locali, senza considerare virtuosi e spreconi attraverso l'introduzione dei costi e dei fabbisogni standard. In mancanza di reali riforme strutturali, per ora, le misure previste avranno l'unico risultato di portare Regioni e Comuni ad aumentare tributi e tariffe locali.
Le manovre di Renzi sembrano guidate dalla logica del credito al consumo, cioè rimandare a domani il pagamento di scelte compiute per «acquistare» il consenso oggi, come il Tfr in busta paga, con la finalità di aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori nell'immediato. Tuttavia una simile misura, come paventato dalla Banca d'Italia, sul lungo periodo può incidere negativamente sulla capacità di integrare le pensioni in un'ottica di previdenza complementare.
Complementarietà minacciata anche dalla scelta di innalzare le aliquote sui fondi pensione e sullo stesso Tfr, finendo per disincentivare possibilità alternative offerte a quei lavoratori che con i propri contributi sostengono le pensioni percepite oggi. Il rischio complessivo è che Renzi rottami le giovani generazioni e non i vecchi arnesi della politica. Con gravi ripercussioni sul futuro dei nostri figli.*presidente di Popolari per l'Italia
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