Ero uno degli ottantamila. Sono andato al concerto di Jovanotti a San Siro. Catarsi vintage. Perché più o meno siamo coetanei. Più o meno all'epoca non lo potevo vedere. Più o meno adesso per me è il massimo. Per la sua carriera, per il suo divenire continuo come uomo e artista. Forse lo sento vicino perché tengo casa nella sua Cortona e mi passa pedalando e scalando sotto casa. Fatto sta, era dai tempi di Bob Dylan e Springsteen a San Siro, anno 1984 e 1985, che non sceglievo il prato per un concerto e non mi piazzavo davanti al palco. All'epoca tornai a casa la prima volta senza una scarpa, la seconda senza uno zainetto. Stavolta ero preoccupato di tornare a casa senza figli. Però io e mia moglie ci siamo guardati e detti che il pubblico del Jova sarebbe stato come Jova e dunque per bene. Non abbiamo sbagliato. Eravamo a metri tre da lui che ballava e ballavamo noi e ballava mio figlio di otto anni e ballava mia figlia undicenne. Tutti ballavamo e cantavamo ed eravamo felici e a furia di tenere in spalla il piccolo credo che dopo Jova eravamo noi i più affaticati fra gli ottantamila. Poi lui ha fatto una dedica a sua moglie e sua figlia, che «sono qui in mezzo a voi» ha detto, e confesso mi sono un po' commosso pensando alla piccola che osservava papà che stava affrontando e stregando 80mila persone.
Ho pensato a tutti i fermi immagine di quella sera che mi stavano battendo in testa e che in testa mi sarebbero rimasti per sempre. Scatti naturali di una notte speciale, polaroid che non si sarebbero squagliate perché fatte di colori che ho visto a modo mio, fatte degli odori della festa, della fatica dolce di quelle due ore e mezza. E allora ho pensato anche a quei troppi fra il pubblico che il Jova l'hanno invece vissuto guardandolo soprattutto attraverso i display dei loro smartphone. E mi è dispiaciuto per loro.
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