La primavera araba e l’autunno dei piazzaioli italiani

Caro Granzotto, cosa succede? La Libia è scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dalle prime notizie dei telegiornali. Gheddafi, che doveva cadere e fuggire nel giro di ore se la ride a Tripoli. Dove abbiamo sbagliato?
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La così detta primavera araba è una bella gatta da pelare, caro Bonadio. Anche perché va necessariamente affrontata sotto due aspetti, a seconda che la si interpreti - a distanza, al calduccio del proprio tinello - mettendosi nei panni degli arabi o restando nei propri. In parole povere cercando di leggerne le conseguenze in loco e quelle che, di riflesso, ci investiranno. Tutto questo, a cose fatte e a tutt’oggi le cose non sono fatte. Chi va avanti a cuor leggero, senza essere sfiorato da dubbi, ma forte solo di certezze, è il popolo della piazza. La sinistra politica e giornalistica che avendo - come spesso la capita - perso la trebisonda vedeva già Gheddafi impiccato a un lampione. Parlo della sinistra italiana, la più piazzaiola che esista, per eredità ideologica comunista e reducismo culturale sessantottino. Una tabe che li porta a credere che la piazza abbia sempre ragione e sempre vinca perché illuminata dallo spirito santo progressista. E infatti alla piazza reale (manifestazioni, cortei, girotondi, raduni, eccetera) e alla piazza virtuale (appelli, raccolte di firme, mobilitazione tramite i social network, eccetera) ricorre spesso, nella speranza di riparare all’impotenza politica e al vuoto di idee.
Una visione delle cose un po’ rozza e impulsiva: basterebbe la lettura di Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, insuperato classico in materia di piazze e affini, o una ripassata alla storia e alla cronaca per ricredersi sulla ineluttabilità della vittoria della piazza e sulla giustezza in termini di libertà e di progresso dei suoi fini. Trovandoci nel pieno del centocinquantenario non possiamo non ricordare come Umberto I - detto oltre tutto il Re Buono - tacitò la sua piazza. Facendola prendere a cannonate dal «feroce monarchico Bava». Per venire ai nostri giorni, invece, il riferimento classico è quello alla piazza Tienammen, che da buon comunista Den Xiaoping ridusse a mattatoio senza pensarci su due volte. Precedenti che avrebbero dovuto indurre la sinistra politica e giornalistica alla prudenza, evitando di dire gatto - «I ribelli marciano su Tripoli», come annunciava la Repubblica) - se non ce l’hai nel sacco. Se no fai la figura del leggendario Mohammed al Sahaf, il ministro di Saddam che annunciava l’annientamento dei marines mentre questi stavano bussando alla sua porta. Nulla è deciso, s’intende, e tutto è possibile che avvenga, in Libia. Ma ora come ora il colonnello Gheddafi non pare proprio sul punto di mollare. Quanto alla garanzia sulla giustezza dei fini dei moti popolari, la piazza che si liberò dal giogo dello Scià, tanto per fare un altro esempio, si ritrovò inchiavardato al collo quello non certo più soave di Khomeyni.
Non staremo poi a prendere in esame - non è elegante né politicamente corretto - i contraccolpi sugli interessi nazionali (nostri) che ovviamente non si limitano a quelli energetici. Né alle ripercussioni internazionali, per ora poco decifrabili, della primavera araba. Appare però evidente che allo scoppio della crisi il semplice buon senso suggeriva quella prudenza manifestata da tutti i capi di Stato e di governo democratici, ma che dalla sinistra politica e giornalistica è stata aspramente rimproverata solo a Silvio Berlusconi.

Una sinistra, fra l’altro, che invoca l’intervento militare, ancorché nell’ipocrita versione umanitaria, per dare una mano agli insorti e facilitare loro il lavoro di abbattere il tiranno. Stessa procedura che condannarono categoricamente quando il tiranno aveva nome Saddam. Valli a capire, ’sti «sinceri democratici», caro Bonadio.
Paolo Granzotto

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