Quanti spot per Cuba e Gramsci L’Ariston vetrina degli anti Cav

Tirando le somme, i cinque giorni del Festival a Sanremo sono stati una densa passerella di sinistrismo. D’altra parte affidandolo a Gianni Morandi che altro ci si poteva aspettare? Flirtava con il Pci quando aveva i calzoni corti, la militanza lo ha favorito nella carriera e ora, avendone l’occasione, ha ripagato il suo mondo disseminando la kermesse di antiberlusconismo.
È stato lui a dare il là alla giostra anti Cav. Ricordate la prima sera quando è salito sul palco Andy Garcia, l’oriundo cubano? L’ospite ha gentilmente dichiarato «di amare l’Italia», Paese libero contrariamente a Cuba. Morandi è rimasto perplesso, poi ha messo il broncio. Le cronache riferiscono che fosse rimasto male perché Garcia non aveva incluso l’Italia berlusconiana tra i Paesi sotto dittatura. Ora se a un tizio che ragiona così si affida la responsabilità del festival perché meravigliarsi se lo spettacolo, oltre a essere indigeribile, diventa anche una palestra di sinistrosità?
Partiamo dal fatto certo che, nel mondo tv, prendersela con il Cav è titolo di merito. Non rischi nulla e, se anche crei una polemica, tanto di guadagnato perché equivale a una scrittura in più. Vale per la Rai, dove quelli che decidono davvero sono della parrocchia Pd; vale per Mediaset che, un po’ perché bada ai soldi (non avendo il canone), un po’ per non essere accusata di censura, finisce per utilizzare i soliti noti. È un cane che si morde la coda e un piattume mentale che di tutto tiene conto salvo i gusti dei telespettatori. Se la maggioranza degli italiani è di centrodestra lo sarà anche davanti alle tv, ma è una circostanza di cui tutti si infischiano. È ormai prevalsa l’idiozia che intellighenzia e cultura siano di sinistra. Quindi, anche se ci fa ribrezzo, ci costringiamo a pensare che o mangi questa minestra o spegni la tv.
Il contributo di Mediaset all’antiberlusconismo festivaliero lo hanno dato tali Luca e Paolo delle Iene. I due furbacchioni, in stile Pierferdy Casini, hanno dato un colpo al cerchio e uno al tino. Un giorno è toccato al Berlusca subire, un giorno a Bersani, nei giorni successivi solo al Cav. Hanno fatto i paraventi con Fede, Ghedini, Santanchè, festini di Arcore, squinzie varie, e perfino col Giornale, considerato, debenedettianamente, fabbrica del fango: «Ti sputtanerò, al Giornale andrò con foto dove tu sei con un trans...», ecc. Per concludere: «Ma il 6 aprile in tribunale ci vai solo tu», riferito al mandrillo di Arcore. A parte che non fa ridere - c’è qualcuno di voi che ha abbozzato un sorriso? - va detto che il predetto mandrillo è il loro datore di lavoro, il valorizzatore dei loro esausti talenti e, in ultima analisi, l’uomo cui dovevano la fama che li ha fatti salire sul palco di Sanremo per meglio insolentirlo.
A questi due si deve pure la baggianata di avere messo i 150 anni dell’Unità d’Italia (che la fiera sanremese si era impegnata a festeggiare), sotto l’egida di Antonio Gramsci. Ne hanno noiosamente letto alcune pagine che di risorgimentale non avevano nulla. Né potevano, perché il politico comunista considerò il moto unitario, così come fu, un tradimento rispetto a quanto avrebbe dovuto essere. Insomma, pur di ingaggiare uno del loro Pantheon, Morandi & co. hanno promosso simbolo del Risorgimento un signore che, se avesse potuto riavvolgere il filo della storia, l’avrebbe radicalmente cambiata. Col bel risultato di avvilire la memoria di Gramsci e avvelenare la nostra.
Ormai pronti a subire di tutto, i più hanno trattenuto il respiro quando Roberto Benigni - storico anti Cav - è sceso da cavallo. Il comico però si è limitato a suggerire subliminalmente che se Silvio Pellico aveva scritto le Mie prigioni, sarebbe stato bene che anche Silvio Nostro assaporasse le sue. Poi però, dopo un paio di altre battute su Ruby minorenne, ha scodellato una pappardella di mezzora sull’Inno di Mameli che ha fatto venire giù l’Ariston dagli applausi. Dall’indomani, anche la clientela tv di destra, euforica per lo scampato pericolo, ha proclamato Benigni maggiore risorgimentalista del Paese, innologo inarrivabile, punto di riferimento della patria negletta. Una promozione grottesca dovuta al clima sinistreggiante creato da Morandi & soci che ha innescato nei moderati una Sindrome di Stoccolma: essendosi Benigni comportamento appena civilmente, si sono prostrati ai suoi piedi, grati per non averli massacrati come avrebbe potuto.
Last but not least, nel tinteggiare di rosso il congresso politico-canoro del Ponente ligure, Roberto Vecchioni, vincitore del Festival. Il «professore», insegnante nelle scuole secondarie, è una colonna portante del buonismo veltroniano e marito della femminista Daria Colombo, che inalbera come sua maggiore medaglia l’essere cofondatrice dei Girotondi. Il sessantasettenne ha trionfato con una canzone di lugubre pessimismo sul presente della Patria taglieggiata dal Caimano: «l’operaio che non ha più il suo lavoro»; «chi ha 20 anni e se ne sta a morire»; più in generale, «stanno uccidendo il pensiero»; «questa maledetta notte (berlusconiana, ndr) dovrà pur morire». A suo onore va detto che il cantautore non si limita a segnalare il danno ma offre il rimedio. Mentre per Bersani non c’è che la cacciata del Cav per risolvere le brutture, l’artista - pur d’accordo col capo - suggerisce anche di urlare a squarciagola: «Chiamami sempre amore, chiamami ancora amore, chiamami sempre amore». Vedrete, sembra dire Vecchioni, che per il Berlusca la fine si approssimerà veloce. Il vincitore ha dedicato la palma agli Italiani e alle donne. Ai primi per affetto sincero, alle altre pensando ai rabbuffi di Daria se non lo avesse fatto.
La vittoria del compagno ha esaltato Vannino Chiti, vicepresidente Pd al Senato. Egli si augura - udite, udite - che la canzone «stimoli l’Italia a voltare pagina e a risollevarsi da un periodo buio e mortificante». Da questo affidamento del futuro al doremi festivaliero, potete giudicare la ricchezza di idee e programmi della sinistra. Non poteva mancare, a suggello dell’antiberlusconismo sanremese, una gratuita sciocchezzuola di Morandi, il maitre à penser del festival.

Felice del successo, ha voluto condividerlo con i collaboratori a spese del Berlusca: «C’è solo uno in Italia che dice “ghe pensi mi”. Io non lo penso, la squadra è importante». Ammirato dal suo coraggio si è ripromesso di tramandare l’impresa ai nipoti.

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