Mario Cervi - Nicola Porro
Abbiamo sbagliato, lo confessiamo, definendo le province nell’introduzione a questo libro, come enti inutili. Non è vero. Per alcuni esse sono non solo utili ma indispensabili: e rappresentano una fonte di reddito insostituibile. Tra costoro mettiamo anzitutto un piccolo esercito fatto da quattromila politici di professione: cui sommare portaborse consulenti e assistenti, in numero imprecisato, che all’istituzione provincia debbono carriere e stipendi. Si aggiungano ancora più di 60mila burocrati alle dirette dipendenze provinciali.
Il vero motivo per cui l’abolizione delle province - da anni evocata da costituzionalisti e opinionisti - non è mai stata seriamente messa all’ordine del giorno è tutto in questi numeri. La provincia significa un livello di politica in più, un grado di burocrazia che si somma ai tanti già esistenti. È benvenuto e benvoluto nei palazzi del potere. Soltanto considerando le cariche elettive le province ci costano più di 120 milioni l’anno. I dipendenti provinciali (che per l’esattezza sono 62mila) assorbono inoltre due miliardi di euro l’anno in stipendi. Ovviamente queste cifre non considerano importanti annessi e connessi: uffici, macchine, telefoni, carta, segreterie e simili.
Ma tutto questo personale politico - e i burocrati alle sue dipendenze - di cosa dovrebbe occuparsi? Con il passare degli anni, soprattutto negli ultimi dieci, sono aumentate le competenze e le funzioni attribuite alle province. E il loro ruolo istituzionale è via via cresciuto. Si ha l’impressione che la provincia sia un’istituzione ereditata dal passato e in qualche modo subita cui la politica, già che c’era, ha nel frattempo attribuito una serie di funzioni tali da giustificarne la sopravvivenza. Un esperimento politico, ottimamente riuscito, di sostentamento in coma vegetale.
Ciclicamente nel Palazzi romani qualcuno proclama a gran voce che il re è nudo, ossia che le province sono inutili. Anche un politico di peso, Gianfranco Fini, si è unito durante un congresso tenuto a Genova ai tanti che, senza peso politico, sono contrari all’istituzione provincia. «Le province - ha detto l’allora leader di Alleanza nazionale - servono solo al ceto politico, dovrebbero essere abolite». Essendogli stato chiesto a quel punto - si era nel 2007 - perché non avesse agito contro il proliferare delle province quando il suo schieramento era al governo, Fini ha risposto che «non fu possibile abolirle perché la sinistra alzò le barricate». Solo la sinistra? A smentire Fini ha provveduto, pensate, proprio un notabile leghista, Roberto Maroni: sostenendo che la provincia di Varese ha il triplo degli abitanti del Molise e che «ci sono regioni più inutili di alcune province». Sembra se ne debba dedurre che le province popolose meritino la salvezza, o l’assenso alla nascita, e le poco popolose una croce tombale. Ma è il parere di Maroni, originario ovviamente d’una provincia popolosa. Altri sono di parere opposto. Insomma non se ne esce se non varando province a gogó, così da rendere contenti tutti.
QUOTA 110
Ritornando alla nostra lista, e completandola con le ultime arrivate, tocchiamo quota 110 province, comprese le due province a statuto e spesa speciale che sono Trento e Bolzano. Le ultime arrivate sono però di emanazione prettamente parlamentare: Monza e Brianza, Andria, Barletta, Canosa e Fermo. Tanti nomi, ma il totale fa tre. E per di più in un decretino di legislatura il governo Prodi stanziò ulteriori 19 milioni per la loro messa in opera. Che si sommano ai circa cento milioni già previsti da precedenti leggi per l’istituzione delle nuove tre province.
Il calcolo finale dei costi d’una nuova provincia lievita, considerando proprio tutto, all’astronomica cifra di cinquanta milioni di euro. Una bella distanza dai 3,5 miliardi di vecchie lire che il legislatore aveva previsto nel 1992, non un secolo fa, per la nascita di otto nuove targhe automobilistiche. Il dettaglio è presto fatto.
Il ministero degli Interni fa la parte da leone, e assorbe poco meno del costo totale (24 milioni di euro). Sul suo bilancio gravano le uscite con le quali si finanzia, tanto per iniziare, l’indispensabile ufficio del Commissario che mette in piedi la struttura: prefettura, questura, vigili del fuoco. Altri 15 milioni di euro vengono imputati alla Difesa, per il comando dei carabinieri. Solo un nuovo indispensabile Archivio di Stato (una fetta a carico dei Beni culturali ed una fetta a carico delle Politiche Agricole e Forestali) vanno 5 milioni. Quasi altrettanti ne devono essere previsti dal ministero dell’Economia, per la costituzione dei suoi dipartimenti provinciali, per la Commissione tributaria, per la Guardia di finanza. Alla fine almeno mezzo milione se ne va nella predisposizione delle necessarie procedure e attenzioni burocratiche per l’espletamento delle elezioni. Il giuoco, sia chiaro, non è a somma zero. Ciò che metto in provincia non lo tolgo simmetricamente al centro: sia in termini di personale sia in termini di risorse vengono aggravati gli oneri che pesano sul contribuente, e complicati i processi decisionali.
Per degli accaniti critici, quali noi siamo, dell’istituzione provinciale vi è un ulteriore elemento negativo. Le province potrebbero essere imputate di «associazione esterna allo scialo» perché rappresentano l’entità territoriale e giuridica sulla quale altri enti pubblici o semipubblici organizzano la capillarità dei loro uffici.
Ci spieghiamo. Sulla base delle circoscrizioni provinciali quegli enti hanno una sede ritenuta necessaria, e dunque eliminando la lussureggiante vegetazione provinciale potrebbero essere eliminato anche il parassitismo che vi trova riparo. Il caso più eclatante è quello della Banca d’Italia: che nel tempo ha modellato nel tempo la sua organizzazione su base, appunto, provinciale. Alla Banca d’Italia, e ai suoi uffici centrali di Palazzo Koch, a due passi dal Quirinale, fa capo una fitta rete di sedi provinciali. Dispone perciò della bellezza di 95 filiali: e, bontà sua, ha evitato di coprire le 8 neo-province costituite nel 1992.
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