Quell’impero fondato sulla legge

Che cosa sarebbe il mondo senza il diritto dei Cesari e le loro legioni?

Sono stato ragazzo durante il fascismo, quando la romanità imperversava. Fasci littori, aquile, gagliardetti, quadrate legioni erano gli ingredienti necessari d’ogni discorso ufficiale. Mussolini aveva esitato a lungo tra Augusto e Cesare, nello scegliere il personaggio cui ispirarsi, optando infine per il secondo: più macho. I primi seniori e i centurioni in orbace affollavano le cerimonie, i contadini scoprivano con stupore d’essere «vèliti del grano». Questa imperialità di cartapesta finì con la caduta del regime.
Avrebbe dovuto e potuto restarmene un’allergia istintiva per grandezze remote che s’era preteso di gabellare per grandezze attuali. Invece sono più che mai un tifoso della Roma antica, non quella di Totti ma quella che governò il mondo. Ne sono tifoso non perché presuma che gli italiani ne siano gli eredi, ma per la ragione opposta. So che nella letteratura e nell’arte i greci prima dei romani e gli italiani dopo i romani espressero talenti superiori. Ma la vera grande vocazione di Roma non si chiamava letteratura o filosofia o pittura. La vera grande vocazione di Roma era la costruzione d’un impero immenso che funzionasse, e che i greci delle città-stato, geniali e anarcoidi, non avrebbero mai saputo concepire.
I romani furono guerrieri ed espansionisti. Determinati, all’occorrenza feroci. Alcune loro conquiste, come quella della Gallia, ebbero quasi le caratteristiche del genocidio. Da questo punto di vista i romani erano ciò che il Duce ostentava di essere, quando faceva la grinta corrucciata, ma che non era. Coraggiosi, cinici, bravissimi i romani nell’utilizzare per i loro scopi le rivalità e le bassezze dei potentati locali: dimostrando in questo un’intelligenza cui solo gli inglesi si avvicinarono nella gestione dei loro domini. I romani controllavano con un numero relativamente esiguo di uomini un territorio sterminato, e riuscivano a far arrivare in tempo breve gli ordini di Roma fino alla Pannonia o all’Egitto o alla Britannia. Ma l’impero inglese ha retto un paio di secoli, quello romano - se risaliamo al periodo repubblicano - tre volte tanto.
I romani erano bravissimi costruttori di strade ed edificatori di città, forse l’unico punto in cui la loro capacità è analoga a quella degli italiani d’oggi. E poi - altro vanto indiscutibile e ineguagliabile - seppero strutturare un sistema giuridico al quale si continua a far riferimento, due millenni dopo, perché la sua saggezza è intatta. La legge romana voleva essere chiara e semplice, proprio l’opposto della legge italiana. La Roma dei Cesari era la patria del diritto, la Roma dei Cesaroni è la patria del cavillo. Ogni giorno leggiamo che un giudice ordinario o del Tar si china su vicende irrilevanti, che poi procedono fino alla Cassazione. I romani pensavano che «de minimis non curat praetor». Tanto di cappello.
Per qualche stilla di sangue romano che forse è arrivata fino alla mia padanità provo un briciolo d’orgoglio se penso a cosa rappresentò l’impero romano. Vi fu un momento in cui Roma era perfino costretta a respingere popolazioni e regnanti che volevano rifugiarsi sotto il suo mantello. Era onnipotente e per questo Virgilio voleva che fosse anche clemente: «Parcere subiectis et debellare superbos».

C’è stata una situazione analoga negli anni recenti: quando, dissolta l’Unione Sovietica, abbattuto il muro di Berlino, non ancora «esplosa» la forza cinese, gli Stati Uniti diventarono l’unica superpotenza: e perfino la Russia parve disposta ad accettare la situazione. Una fase che - piacesse o no - era straordinaria, ma che è durata poco. Molto meno dell’egemonia romana.

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