Quelli del dovere di accoglienza «senza se e senza ma»

Caro Granzotto, ammetto di essere uno dei tanti, ma forse tantissimi italiani che quei profughi o migranti sicuramente clandestini che quotidianamente toccano terra a Lampedusa non li vogliono. Nemmeno in via temporanea, nemmeno se si incamminano poi alla volta di Ventimiglia. Non sono un leghista, ma pur nella sua grossolanità il «Fuori dalle balle!» esclamato da Umberto Bossi rispecchia in pieno il mio sentimento. Di ciò, ed ecco la domanda, mi devo sentire colpevole? Mi devo ritenere razzista?
Milano

E perché mai, caro Villa? Cosa c’entra il razzismo, poi? Cioè, sì, lo so, c’entra perché ce lo fa entrare l’ipocrita piagnisteo dei «sinceri democratici», ma scusi, sa: chissenefrega. Il sentimento razzista ha connotazioni molto precise: odio, discriminazione attiva per una razza ritenuta inferiore. Per intenderci, il «razza subumana simile alle scimmie» alla voce «Negre», «negro», dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, bibbia dell’Illuminismo. Chi ha mai detto che i clandestini diretti a Lampedusa, tunisini oggi, libici domani, siano subumani simili alle scimmie? Nei loro confronti non s’avverte nemmeno la legittima e umanissima avversione a questo o quello straniero, la xenofobia. Chi si ribella all’idea che l’Italia debba essere invasa da centinaia di migliaia di «migranti» non ne fa una ragione di tunisini o libici, ma di clandestini che forzando le regole e contando sull’umanitarismo da operetta di parte della società civile impongono la loro presenza e il loro diritto - i diritti oggi vanno fortissimo e ne saltano fuori sempre di nuovi - a risiedere anche dove non sono graditi.
Che sia una colpa il non gradire e favorire l’afflusso incontrollato di migranti clandestini - in pratica il «Föra da i ball» di Umberto Bossi - non sta scritto da nessuna parte. Non sta scritto nel diritto naturale che comporta i principî eterni e immutabili della natura umana. E di conseguenza non sta scritto nelle norme del diritto positivo. Se non proprio un dovere, l’ospitalità è certamente un tratto rimarchevole di civiltà. Ma nessuno, salvo certi mamalucchi nostrani, si è mai spinto ad affermare che l’ospitalità abbia da essere categoricamente incondizionata e illimitata: nella versione assoluta del bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato, la può promettere e mantenere solo Gesù (e previa bussata). Il modo di dire «la mia casa è aperta a tutti» che la sinistra terzomondista e multiculturale vorrebbe estendere a quella grande casa che è lo Stato, è una ipocrita fanfaronata, caro Villa. Si ricorda che il golpista Alberto Asor Rosa, uno che predica l’accoglienza a braccia spalancate di chiunque metta piede a Lampedusa, ebbe stizzosamente a lamentarsi dei pellegrini che affollano piazza San Pietro - in prossimità della quale Asor Rosa risiede - e che sovvengono alle necessità fisiologiche proprio dentro l’androne di casa sua. Giusta lamentela, e vorrei vedere, ma in stridente contrasto con la pretesa di un dovere di accoglienza «senza se e senza ma».

Per tanto, desiderosi come siamo di non voler vedere la casa Italia ridotta a seppur metaforica latrina, nel condividere il «Föra da i ball» di Umberto Bossi diciamoci la verità, caro Villa: non possiamo non dirci asorosiani.
Paolo Granzotto

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