Le «quote rosa» fanno male alle donne in gamba

Una legge che imponga il 20 o il 30% della presenza femminile nei cda delle aziende quotate in Borsa, la ritengo una scelta giusta e al tempo stesso sbagliata. Giusta perché attenua la litania della discriminazione delle donne nelle cabine di regia, sbagliata perché sancisce la definitiva sconfitta del merito e della capacità delle signore di ottenere posizioni, che altrove nel mondo hanno conquistato vincendo la sfida con i colleghi maschi, grazie alle proprie qualità e al proprio impegno. In ogni ambito della società, le minoranze inizialmente discriminate hanno saputo trasformare gli handicap in una voglia di emergere incredibile, che ha prodotto fior fiore di professionisti, poeti, scrittori, politici ecc. Quando nel 1929 a Ellis Island, le autorità americane dell’immigrazione chiesero alla signora Immacolata Giordano cosa fosse venuta a fare la sua famiglia in America dall’Italia, rispose semplicemente «per lavorare», e domandatole quale fosse il suo sogno rispose «che mio figlio diventi Governatore». Ebbene il figlio Mario Cuomo divenne veramente Governatore dello Stato di New York, tra i più apprezzati, eppure allora gli italiani erano gli ultimi della lista, più discriminati dei negri, che oggi vantano un Presidente degli Stati Uniti D’America.
Fano (Pesaro e Urbino)

Vero, caro Melis, eppure il concetto di “quota rosa” viene proprio da lì, dagli Stati Uniti, come molte altre cose che vi abbiamo importato, nel bene come nel male. Fu l’America degli anni Sessanta a codificare, nell’Affermative action - la discriminazione positiva - lo strumento politico per promuovere la pari opportunità di razza, di genere e di etnia. La norma fu naturalmente accolta come una delle più felici conquiste della società, ma dopo il periodo di euforia se ne cominciarono a elencare le magagne. Prima fra tutte, che a ben vedere l’Affermative action induceva a una discriminazione inversa. Col sistema delle quote ci si trovava infatti costretti a negare posti di lavoro o accessi alle università (che in America sono distribuiti in base a un pre esame) a personale e studenti meritevoli per doverli assegnare a chi ne vantava il diritto solo perché appartenente a un genere, a una razza o a una minoranza poste, diciamo così, sotto tutela: ma non necessariamente altrettanto validi dal punto di vista professionale o culturale. Uno stato di fatto che portò la California a non tener più conto dell’Affermative action nelle assunzioni nel settore pubblico. Decisione seguita poi da aziende e da qualche università in tutti gli altri Stati dell’unione. Intanto montava lo scontento, soprattutto fra le donne, per un sistema che le mortificava, trovandosi nell’impossibilità di dimostrare, per primo a loro stesse, d’aver ottenuto il posto di lavoro (o l’ingresso all’università) per le proprie qualità e non perché in «quota». Ciò che determinava uno stato di subalternità e non solo psicologica nei confronti di chi - i maschi, naturalmente - il posto se l’era guadagnato con le proprie forze. Ci sarebbe poi da aggiungere che diverse indagini posero l’accento sulla perdita di competitività di aziende che si attenevano scrupolosamente all’Affermative act, fenomeno, questo, facilmente spiegabile. Dovendo per forza colmare una quota, si finisce per assumere o promuovere anche chi non ne sarebbe all’altezza. Potrebbe essere il caso nostro, caro Melis. Abbiamo preparatissimi ed efficacissimi squadroni di donne di taglia dirigenziale. Una migliore dell’altra.

Ma se nel comporre la quota del 20 per cento di un consiglio d’amministrazione non se ne trovassero tante all’altezza? E quelle all’altezza, come scioglieranno il dubbio se esser state prescelte per la professionalità o non per tappare, a peso morto, un buco nella quota?
Paolo Granzotto

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