Milano Il palazzo di giustizia di Milano è un microcosmo dove i segnali e gli umori si possono cogliere senza troppa fatica. E così Fabio De Pasquale da almeno un paio di settimane si era quasi rassegnato. Il processo Mills, linchiesta a carico di Silvio Berlusconi cui ha dedicato dieci anni della sua vita, era destinato a venire inghiottito dalle sabbie mobili della prescrizione. De Pasquale ha dovuto prenderne atto. E ieri mattina si è presentato in aula sorridente e rilassato, come se non si trattasse delludienza chiave della sua carriera professionale. Ha ascoltato senza reazioni apparenti la lettura della sentenza. E se nè andato liquidando i cronisti con un serafico «inutile commentare».
Ma De Pasquale, dietro lapparente fatalismo, è arrabbiato come un puma. Perché è convinto che il destino del processo Mills fosse tuttaltro che ineluttabile. E in cuor suo ritiene responsabili di questo esito desolante non solo e non tanto limputato Silvio Berlusconi, il parlamento delle leggi ad personam, gli avvocati Ghedini e Longo con cui si è accapigliato a ogni pie sospinto, e con i quali anche ieri volano scintille. Il problema è che De Pasquale è fermamente e risolutamente convinto che a salvare Berlusconi dalla condanna per corruzione in atti giudiziari abbiano contribuito in modo decisivo anche dei magistrati, altre toghe in servizio a Milano che in un modo o nellaltro hanno aiutato il Cavaliere a sottrarsi al giusto verdetto, non facendo fino in fondo il loro dovere nella battaglia in corso.
Di questa sorta di fellonia davanti al nemico non sono, secondo De Pasquale, esenti nemmeno i suoi colleghi della Procura della Repubblica, che lo hanno lasciato solo, affiancandogli in tutto il processo solo un giovane e volonteroso sostituto di fresca nomina, Sergio Spadaro. Al suo collega storico di inchieste sulla Fininvest, Alfredo Robledo, De Pasquale non ha mai perdonato la dissociazione quando si trattò di iscrivere nel registro degli indagati Marina e Piersilvio Berlusconi (poi, come paventava Robledo, archiviati per manifesta innocenza). E anche dai capi della Procura il baffuto pm messinese si è mai sentito davvero tutelato fino in fondo: né da quello attuale, Edmondo Bruti Liberati, né tantomeno dal suo predecessore Manlio Minale, colpevole di avergli sottratto lennesima inchiesta sul Cavaliere con la motivazione che «in questo ufficio non esistono pubblici ministeri ad personam».
Ma, ancor più che ai suoi colleghi della Procura della Repubblica, è ai giudici del tribunale che De Pasquale attribuisce buona parte della mancata vittoria. Prima tra tutte Livia Pomodoro, presidente del tribunale milanese, colpevole agli occhi del pm di essere scesa a patti con gli avvocati dellallora presidente del Consiglio, concordando con loro - quando il carnet dei processi a carico di Berlusconi aveva iniziato ad essere affollato - un calendario delle udienze che tenesse conto da un lato delle esigenze della giustizia e dallaltro degli impegni istituzionali dellimputato. È il famoso «patto del lunedì», che prevedeva la disponibilità del Cavaliere ad essere presente in aula il primo giorno di ogni settimana, o comunque a non impedire che le udienza si tenessero regolarmente: patto in realtà piuttosto effimero, ma cui De Pasquale imputa buona parte dei ritardi che hanno accompagnato il processo Mills verso la prescrizione. E a Livia Pomodoro il pm addebita anche unaltra colpa: avere insistito perché a celebrare il processo Mills, ripartito dopo lannullamento della legge sugli impedimenti istituzionali, fosse un giudice come Francesca Vitale, nel frattempo già trasferita in corte dappello, che di celebrare questo processo non aveva alcuna voglia. In mano ad un presidente più volonteroso e più grintoso, secondo De Pasquale, il processo Mills avrebbe potuto viaggiare dritto filato fino alla condanna dellimputato. Mentre al giudice Vitale il rappresentante dellaccusa addebita i tempi lunghi con cui, soprattutto nella fase iniziale, ha gestito il calendario delle udienze, salvo accorgersi solo quando era troppo tardi che bisognava accelerare i tempi. Per non parlare di alcune decisioni «garantiste».
Insomma, De Pasquale si è sentito lasciato solo a combattere contro un avversario superiore per uomini e mezzi.
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