George H. Bush è il Carter dei repubblicani. Il paragone dipende dalla durata del suo mandato: one term president, il presidente che non riesce a farsi rieleggere. E come Carter, anche Bush è stato sconfitto da un avversario formidabile: mentre al presidente delle noccioline toccò Ronald Reagan, a Bush toccò Bill Clinton che all'epoca in pochi conoscevano, ma che poi sarebbe diventato uno dei presidenti più amati degli ultimi decenni di storia. A differenza di quella Carter, comunque, la presidenza Bush non fu disastrosa. Certo, veniva da otto anni di reaganismo (nel quale lui era stato vicepresidente) e sarebbe stato seguito dal clintonismo, però nella memoria degli americani Bush padre non è stato un cattivo presidente. Fu lui la faccia dell'America che vinse definitivamente la guerra culturale, economica e ideologica con l'Unione Sovietica: Reagan aveva steso Mosca, Bush completò il lavoro e potè assistere dallo studio ovale all'implosione dell'intero blocco comunista europeo.
A differenza di Reagan e poi anche di Clinton, Bush era un politico esperto, navigato, uno che conosceva perfettamente l'apparato pubblico dal lato politico e da quello tecnico. Era il figlio di Prescott Bush, uno dei più importanti e ricchi signori dell'alta società della costa Est americana della prima metà del Novecento: banchiere con la passione della politica, Prescott, fu senatore del Connecticut agli inizi degli anni Cinquanta. George, suo figlio, studiò nelle migliori scuole del New England, poi fu spedito in guerra, al rientro in patria, gli fu costruito addosso il futuro: sarebbe stato prima un businessman e poi la faccia della famiglia a Washington. Si trasferì in Texas per fondare una grande azienda di estrazione di petrolio e da lì cominciò la scalata alle cariche pubbliche: prima l'elezione alla Camera dei rappresentanti, poi ambasciatore americano alle Nazioni Unite, poi presidente del partito repubblicano. Fu lui, amico di Nixon, a dover chiedere le dimissioni del presidente dopo lo scandalo Watergate. Subito dopo fu mandato in Cina come capo della missione diplomatica americana a Pechino. Rientrato in America fu nominato direttore della Cia. Finita quell'esperienza tornò in Texas e provò il colpo grosso: si candidò alle primarie del partito repubblicano del 1980. Era lui l'anti-Reagan. Tra i due non c'era feeling: troppo fuori dagli schemi, Ronnie. La rivalità diventò amicizia alla fine delle primarie, quando Reagan chiese a Bush di fargli da vice nella corsa alle presidenziali contro Carter.
George, considerato signorile, sobrio, riflessivo, fu un vicepresidente molto discreto. La ricostruzione dei rapporti all'interno della Casa Bianca di quel periodo, però, negli ultimi anni ha disegnato un Bush diverso: secondo i fedelissimi reaganiani, il ruolo di Bush fu decisivo in alcune (poche) scelte sbagliate fatte dal presidente. Secondo alcuni, infatti, fu Bush a consigliare Reagan di rateizzare il taglio delle tasse che Reagan aveva deciso all'inizio del suo mandato. Il gruppo di economisti della scuola di Chicago che supportava Reagan è sempre stato ostile a Bush considerandolo poco utile alle politiche fiscali decise dal presidente.
Ad avvalorare questa tesi c'è il fatto che una volta eletto presidente nel 1988, Bush affrontò la crisi economica del 1990 nella maniera diametralmente opposta rispetto a quanto avrebbe fatto Reagan: invece di diminuire le tasse, le aumentò, tradendo così una precisa promessa elettorale e soprattutto l'intera Reaganomics.
Il conservatorismo bushiano era profondamente diverso da quello reaganiano: più riflessivo, meno irruento, più legato al ruolo dello Stato, meno convinto che il pubblico fosse il problema. Questo di sicuro influì negativamente, perché in quel periodo l'America era abituata a un altro tipo di presidente. Ma a remare contro Bush (che alle elezioni si sbarazzò di Michael Dukakis) fu anche il suo vicepresidente Dan Quayle: diversamente da quanto George aveva fatto con Reagan, Quayle fu un vice molto ingombrante. Sempre troppo presente sui media e sempre troppo esposto per colpa delle innumerevoli e devastanti gaffe, finì per azzoppare il povero Bush. Altra aggravante per l'epoca fu il tipo di ruolo che Bush volle dare a se stesso: sapendo di avere come punto di forza la politica estera, giocò moltissimo sullo scacchiere internazionale, dimenticandosi troppo spesso della politica interna. Questo lo danneggiò alle elezioni del 1992 nelle quali, peraltro, un altro ruolo decisivo lo ebbe la folle candidatura del miliardario Ross Perot: si candidò come indipendente e sulla base di una campagna elettorale fortissima e molto dispendiosa ottenne il 18 per cento di preferenza degli elettori, cioè quanto nessun indipendente avesse mai preso nella storia delle elezioni americane.
Bocciato in America, Bush fu invece molto convincente nella politica estera. Realista come pochi, pragmatico, Bush si trovò a dover gestire anche nella crisi di Tienanmen. A leggere le cronache d'allora, i carri armati che sparavano ad altezza uomo lo colpirono, ma uso come sempre la realpolitik: non volle rompere con la Cina, non volle minare le relazioni con uno Stato in cui era stato ambasciatore. Nel Congresso c'erano molti che gli facevano pressioni per una presa di posizione violenta e ferma contro il regime. Lui fece resistenza. A fine 1989 inviò 13mila soldati americani a Panama per rovesciare Noriega. Gli storici e gli analisti, parlarono allora del «Nuovo Ordine Mondiale». In quest'ordine c'erano i trattati sulla riduzione di armamenti che i suoi Stati Uniti siglarono con Gorbaciov.
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