Ma per ripartire al Friuli sono bastati 8 miliardi

La terra tremò il 6 maggio del 1976, sei minuti dopo le 9 di sera. Una scossa di 6,4 gradi nella scala Richter, 10 gradi nella scala Mercalli. Epicentro il monte San Simeone, a nord di Udine. Per fare il bilancio definitivo della tragedia ci vollero settimane: 989 morti, duecento bambini rimasti senza genitori, oltre 45 mila senzatetto in 127 comuni colpiti, alcuni letteralmente rasi al suolo.
Nel terremoto del Friuli morirono anche venti donne che stavano per partorire. Ma già la mattina dopo, il 7 maggio, all’ospedale di Udine vide la luce una bambina, Donatella. E a 32 anni di distanza il dramma dell’Orcolàt – quel terremoto «orco cattivo», come lo chiamano i friulani – non è più solo una storia di sangue e di macerie. È anche la storia di una rinascita, di una ricostruzione efficiente condotta dal basso, dalla società civile, all’indomani della scossa, senza aspettare gli uomini e i soldi dello Stato. Poi gli uomini e i soldi arrivarono, compresi centinaia di volontari dall’estero, molti di origine friulana, e oltre 15 mila miliardi di lire (circa 8 miliardi di euro) stanziati dal governo in un decennio. Furono spesi bene, e la ricostruzione ebbe un ordine preciso: «Prima il lavoro, poi le case, infine le chiese».
Nel giro di tre anni l’industria locale ripartì. I 5 mila rimasti disoccupati perché la loro fabbrica era stata rasa al suolo trovarono presto un nuovo lavoro. Nel 1986 praticamente tutti gli sfollati avevano una nuova casa.

Al miracolo contribuì tutto il Paese, attraverso un aumento delle imposte sul bollo auto e sulle schedine del Totocalcio. Tutti quei miliardi furono gestiti dagli amministratori locali. E oggi la sconfitta dell’Orcolàt viene ricordata dagli storici come «il primo e unico atto compiuto di federalismo italiano».

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