La rivoluzione liberale? Ma se i liberisti ormai sono «panda»...

Caro Direttore,
sinceramente avevo creduto che Berlusconi potesse infondere un po' di spirito liberale in questo Paese. Ridurre il ruolo dello Stato nell'economia del Paese e, conseguentemente, ridurre la pressione fiscale. Lasciarci i soldi in tasca e far sì che fossimo noi a scegliere con chi aprire un fondo pensionistico o un'assicurazione sanitaria, dove mandare i nostri figli a scuola e con che compagnia volare. Un Paese dove sarebbero spariti quella miriade di enti locali per la salvaguardia di..., per la tutela di.. etc. Uno Stato che costasse poco e che liberasse il Paese dai vincoli fiscali e burocratici che lo attanagliano. Adesso ci si è messa anche la crisi mondiale. E cosa succede? Invece di arrabbiarsi con la Fed che per anni ha inflazionato il dollaro trascinando verso il basso le economie di mezzo mondo qui se la prendono con il mercato che non c'entra assolutamente nulla. Insomma... la vedo nera caro direttore... molto nera. Eppure noi siamo un Paese che ha un debito privato bassissimo e dove la maggior parte degli abitanti sono proprietari di immobili. Basterebbe poco. Basterebbe una «botta di libertà». Una flat tax, introdotta dalla sera alla mattina, con la garanzia che nessuno la tocca per una decina d'anni, in modo da attrarre investitori stranieri. Una semplificazione delle normative sul lavoro, sul fisco, sulla pubblicità, sulla ricerca, sulla produzione. Basterebbe che lo Stato facesse meno e staremmo tutti meglio caro Direttore, glielo assicuro.

In questo Paese è sempre mancata una rivoluzione liberale. Quante volte ce lo siamo detti? In Inghilterra ci fu la Thatcher, negli Stati Uniti Reagan: la Lady di ferro vinse il braccio di ferro coi minatori, il presidente americano quello con i controllori di volo. Noi, quelli che contestavano la privatizzazione dell’Alitalia mostrando in piazza il cappio, li abbiamo mandati al Grande Fratello. Lei ha ragione: Brunetta si dà da fare, ma restano ancora troppi carrozzoni pubblici. Troppi lacciuoli sindacali. Quando s’è fatto qualcosa di concreto, come la legge Biagi che ha dato vera flessibilità al mondo del lavoro creando milioni di occupati, si sono subito levate le barricate. E, purtroppo, anche le pistole. Altre riforme sono state avviate, ma poi sono state smontate (la riforma della pensione, per esempio, o la riduzione dell’Irpef). Lei dice: perché non si procede ora? Semplice: perché per far le grandi riforme non basta volere. Bisogna anche cogliere l’onda, il momento giusto. Il primo governo Berlusconi fu interrotto subito dai magistrati. Il secondo si scontrò, dopo pochi mesi di vita, con l’11 settembre. Questo si trova nel mezzo della crisi mondiale. Siamo realisti: fare la rivoluzione liberale adesso è rischioso, forse addirittura impossibile. È amaro, ma bisogna rendersene conto: tutto il mondo sta andando in un’altra direzione. Si può nuotare controcorrente, ma fino a un certo punto. Mi ricordo che una volta il professor Antonio Martino e il professor Sergio Ricossa si dicevano: «Non dobbiamo prendere l’aereo insieme perché se l’aereo cade il liberismo in Italia è finito».

Pochi giorni fa ho visto sul «Washington Post» un manifesto di un gruppetto di economisti liberisti che si definivano «panda» e ho pensato, un po’ triste come lei: speriamo almeno che anche loro non prendano l’aereo tutti insieme.

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