Roberto Bellarmino

Gesuita, campione della Controriforma, capo del Sant’Uffizio al tempo del processo a Galileo, non gli manca nulla per essere la bestia nera di tutti i laicismi e progressismi possibili. Ma per la Chiesa, che lo ha beatificato nel 1923 e canonizzato nel 1930, è addirittura uno dei suoi Dottori. Fu la sua, in effetti, una delle intelligenze migliori del suo tempo. Cercò di far capire a Galileo che la questione copernicana andava mantenuta nel campo della scienza, senza sconfinare nella teologia. Il tempo gli ha dato ragione, anche se certi fanatici non gliela daranno mai. Bellarmino era nato nel 1542 a Montepulciano, in quel di Siena, ed era figlio di una delle sorelle del papa Marcello II. Nel 1560 entrò nella Compagnia di Gesù e dieci anni dopo fu ordinato sacerdote. Divenuto un famoso teologo e polemista, fu creato cardinale nel 1599 e poi arcivescovo di Capua. Insegnò nei maggiori collegi gesuiti del tempo, da Lovanio a Firenze, a Roma. Partecipò alla redazione della «Ratio Studiorum», il celebre percorso educativo delle scuole gesuite.

Dovette occuparsi delle principali controversie teologiche del tempo, come l’eresia detta baianista, la difficile situazione per i cattolici nell’Inghilterra di Giacomo I Stuart, lo scontro tra Santa Sede e Repubblica veneziana (difesa dal servita Paolo Sarpi), il periodicamente rinascente gallicanesimo in Francia. Per tutto ciò Bellarmino scrisse moltissimo, soprattutto quel «Catechismo» che divenne il libro più diffuso dopo il Vangelo. Bellarmino non arrivò a vedere il secondo processo di Galileo perché morì a Roma nel 1621.

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