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ROMANZI A CONFRONTO

Il contenzioso tra «Soluzione Virale» e «Soluzione Finale» pone il problema se sia lecito utilizzare le idee altrui

Rino Di Stefano

Secondo il Dizionario Italiano a cura del professor Tullio De Mauro, la parola plagio significa «appropriazione indebita e divulgazione sotto proprio nome di un’opera altrui o di una parte di essa, specialmente in ambito artistico e letterario». Prima di parlare di plagio, quindi, e tantomeno di accusare qualcuno di plagio, è necessario essere sicuri che una simile evenienza sia avvenuta realmente.
Nel caso dei romanzi «Soluzione Virale», pubblicato da chi scrive con la De Ferrari Editore nel 2000 (ma il manoscritto originale è stato depositato presso un notaio genovese il 9 novembre 1989), e di «Soluzione Finale», pubblicato da Andrea Novelli e Gianpaolo Zarini con Marsilio nel 2005, quello che si può dire, mantenendosi nella semplice constatazione della lettura, è che nel secondo si riconoscono diversi elementi ed espedienti letterari del primo. Novelli e Zarini non hanno preso pezzi di «Soluzione Virale» per trasferirli nel loro «Soluzione Finale». No, ciò che si può loro eventualmente contestare è che avrebbero utilizzato idee del primo per realizzare, con uno schema personale, un nuovo libro. Basti pensare al cuore del problema di «Soluzione Virale», dove una potente organizzazione religiosa americana di Atlanta, legata agli ambienti dell’estrema destra, un bel giorno decide di provocare un’epidemia causata da un virus artificiale tra le comunità di omosessuali e drogati. Il tutto per fini morali e politici. In «Soluzione Finale» ritroviamo una potente organizzazione neonazista di New York, legata agli ambienti dell’estrema destra americana ed europea, che mette in circolazione un virus che colpisce solo gli ebrei allo scopo di sterminarli e, quindi, di portare a termine il progetto di soluzione finale voluto da Hitler.
E poi ci sono diversi altri punti di similitudine tra i due romanzi, fino addirittura allo stesso finale. Basta leggere la scheda qui a fianco per rendersene conto.
È plagio, questo? Si può dire, legalmente, che «prendere in prestito» idee da un romanzo per costruirne un altro, sia plagio? «Il combinato disposto della legislazione vigente e della giurisprudenza che ne è seguita - risponde l’avvocato genovese Paolo Pruzzo - tende a definire quale plagio tutte le attività di riproduzione, trascrizione, diffusione, rappresentazione, esecuzione con o senza variazioni od aggiunte, di un’opera altrui».
In teoria, dunque, utilizzare le idee di un’opera altrui per realizzarne una propria dovrebbe rientrare nella definizione di plagio. Ma la questione è tutt’altro che chiara. Alla direzione della Siae, a Roma, fanno presente che di solito la magistratura mostra una certa benevolenza verso chi è accusato di plagio. Vedi, macroscopico esempio, l’assoluzione del libro di Dan Brown, accusato di plagio da due autori inglesi. E d’altra parte, fanno notare gli avvocati, queste questioni finiscono con un giudizio di merito che è sempre in mano al magistrato che si occupa della questione. Insomma, a prescindere dal caso specifico, a sfruttare le idee altrui in genere la si fa franca.
Ed è appunto questa la tesi emersa nell’incontro di lunedì scorso organizzato dall’Associazione Lyceum presso il Circolo Tunnel di via Garibaldi, incontro voluto proprio per mettere a confronto gli autori dei due volumi. «Le somiglianze tra i due libri - ha sbrigativamente concluso il professor Giuseppe Benelli, moderatore dell’incontro - possono rientrare nei luoghi comuni che esistono in tutti i thriller di questo tipo».
Per cui si è dato per scontato che in tutti i «gialli» che rientrano in questa categoria ci sia una potente organizzazione segreta che semina virus letali in giro; che i protagonisti siano sempre un uomo e una donna; che i protagonisti subiscano lo stesso tipo di attentati; che il protagonista riesca sempre a portarsi a letto la controparte femminile dopo il primo pranzo o la prima cena; che il protagonista sia cattolico e frequenti una chiesa dedicata a Saint Patrick in una qualche città americana; che i protagonisti, per cercare documenti determinanti, si introducano di notte in un palazzo dove scassinano un mobile o una cassaforte e trovano, immancabilmente, il sospirato dossier dei cattivi; che i protagonisti si uccidano lasciando un’ampia confessione; che ad un certo punto del racconto intervenga sempre l’Fbi che toglie l’inchiesta alla polizia locale; che, infine, tutti i romanzi si concludano con importanti laboratori che annunciano strabilianti ricerche scientifiche.

A quanto sembra, pare che questi siano elementi comuni che tutti i medical thriller immancabilmente avrebbero.
Il discorso, forse, è un tantino più complicato. Ma, tant’è, in mancanza di un riconoscimento giuridico resta almeno la soddisfazione che il proprio lavoro sia servito come ispirazione a qualcun altro.

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