B imbi a scuola. Moglie fuori. Giorno di riposo. Finalmente a casa. Vien da pensare: le 13 e 30, cè il tigì, è ora di accendere la tivù. Il caminetto a lato consiglia di no. Lo fa alla sua maniera: lasciando parlare il crepitio del fuoco, quasi la fiamma sussurrasse un dolce «go-dia-mo-ci-que-sto-si-len-zio».
Per una volta meglio darle retta, meglio restare seduti a far altro, magari a leggere il giornale. Il rumore è ridotto al fuoco da ravvivare ed è una meraviglia. Non ci sono telefonini squillanti, tg che strillano, non cè radio, non cè musica mentre si legge e linchiostro racconta in silenzio storie talvolta, loro sì, assordanti.
Fino a ieri il gesto spontaneo sarebbe stato accendere la tv per farsi regalare un po di vociante compagnia, per carpire qualche notizia; un gesto figlio di comuni automatismi, chiamiamole consuetudini, che rovinano la bellezza del dolce silenzio capace di farci sentire il crepitio del fuoco. Però è così rinfrancante vivere mezzora di sano, vero, silenzio che se per un fortuito caso, il camino ad esempio, se per una coincidenza, per uno sgambetto della quotidianità capita di assaporarla, poi non se ne può più fare a meno. Subentra la voglia di riprovare al più presto. È come se, per magia, il camino, la fiamma e tutti quegli oggetti o situazioni che possiedono la forza di scuoterci, riuscissero anche a schiuderci un mondo, a segnare una linea di demarcazione fra rumori che si possono e devono accettare perché necessari, e altri da rifiutare perché sinsinuano subdoli senza fragore e pronti a fagocitarci.
È chiaro, il problema non è il baccano di un macchinario o dei motori in strada con cui ci si deve volenti o nolenti confrontare; il problema è il mare di molestie sonore platealmente inutili in cui ci si immerge consenzienti. Il problema è la maleducazione di gente che urla al telefono come se i fatti suoi fossero i nostri; il problema sono gli applausi ai funerali, i tv accesi mentre si mangia e i genitori che poi si lamentano se i figli li ignorano. Il problema è la disperata incapacità di star bene in silenzio di chi, anziché coltivarlo ogni giorno, lo compra chiavi in mano nella baita in montagna o alle Maldive; gente che, tornata a casa, racconta agli amici quanto sia stato bello mentre tuttattorno radio, tv, hi-fi e persino il dvd della Disney tuonano accesi.
Forse ha ragione lo storico Stefano Pivato quando su «Avvenire», commentando il suo ultimo saggio «Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro del Novecento (Ed. Il Mulino)», dice: ormai «tutti si sentono in diritto di fare rumore», è uno status symbol, «più si fa chiasso più cè gente che ti nota e parla di te».
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