Il saggio Marxisti a Capri

Vladimir Il’ic Ul’janov, al secolo Lenin (è noto che il secolo in questione fu lo sfortunato e sciagurato Novecento), rimane un personaggio abbastanza misterioso. O quantomeno i giudizi storici, morali, politici sulle sue imprese non sono concordi. Ancora oggi non mancano gli estimatori, quelli che lo salvano in toto e scaricano sulle spalle del successore Stalin le peggiori efferatezze del bolscevismo. Anche se, ad esser sinceri, è ormai abbondantemente provato che polizia politica, gulag e cinismo sanguinario cominciarono in Russia fin dal 1917. In fondo non c’era da aspettarsi altro, date le premesse: Lenin era un aristocratico, aveva interpretato il marxismo in chiave aristocratica, elitaria, tirannica. Il marxismo-leninismo, l’idea che una piccola spregiudicata avanguardia di rivoluzionari di professione dovesse pilotare e fomentare le masse in rivolta, divenne dogma per la sinistra mondiale e manuale di istruzioni per totalitarismi a venire e brigatisti rossi. E dunque, che giudizio dare di Lenin? Una quarantina d’anni fa l’odierno Presidente della Repubblica Napolitano vedeva in lui la «guida geniale del movimento rivoluzionario». Secondo Guido Ceronetti fu «l’inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell’universo concentrazionario». Bertrand Russell, intellettuale non preventivamente ostile nei suoi confronti, quando se lo trovò davanti non poté fare a meno di notare tratti di «crudeltà mongola». In lui sembrava essersi incarnato uno degli eroi negativi di Dostoevskij, ma Solzenitsyn lo considerò prodotto più del giacobinismo francese che del nichilismo slavo. Come dire, non è tutta roba nostra, è un mosro paneuropeo. Vasta è la bibliografia su Lenin, ma nuova luce ha fatto Gennaro Sangiuliano nel suo ultimo lavoro Scacco alla zar (Mondadori). Non si tratta di un saggio accademico né di un romanzo storico, però contiene le qualità di entrambi: fonti accurate e precise (documenti dei National Archives britannici compresi) e suggestive ricostruzioni di ambienti e situazioni. Lenin ci viene presentato in un momento cruciale della sua vita e della sua carriera; è il 1908, arriva a Capri e ad attenderlo c’è Maksim Gor’kij, esule dopo il fallito tentativo rivoluzionario di tre anni prima. Gor’kij è già uno scrittore famosissimo, agli occhi dell'opinione pubblica planetaria rappresenta il volto, l’anima stessa del socialismo russo. Lenin è una faccia nota solo ai compagni e ai servizi segreti europei. Sbarca sull’isola non tanto per farsi un po’ di vacanza, anche se gli svaghi non mancheranno, squisitamente aristocratici e lussuosi, come preteso dalle sue origini, dal luogo, dalle compagnie. Più urgente delle vacanze è tenersi buono lo scrittore, utilissimo come ambasciatore della rivoluzione russa nel mondo e di conseguenza alla raccolta di fondi versati alla causa, soprattutto in dollari. A Capri c’è anche l’influente filosofo ed economista Aleksandr Bogdanov, principale concorrente per la carica di leader assoluto dei bolscevichi. Costui e Gor’kij hanno messo su una vera e propria scuola per rivoluzionari, però vi si teorizza un comunismo imbevuto di religiosità laica e di mito nietzschiano. Per loro l’ateismo è un punto di partenza, non di arrivo: Dio va «costruito» con le energie della nuova classe formata da superuomini rossi. Cose inascoltabili per Lenin, ancora e sempre fedele al materialismo ottocentesco. Quel frazionismo spiritualista va stroncato, Bogdanov va sfidato e sconfitto perfino a scacchi, gioco in cui i due militanti, da buoni russi, eccellono. Inoltre, Lenin a Capri stringe i rapporti con l’aristocrazia militare prussiana che gli permetteranno di tornare in Russia in tempo per fare la rivoluzione.

La Germania aveva fatto male i suoi calcoli, nonostante il disimpegno sul fronte orientale, perderà ugualmente la prima guerra mondiale; Lenin invece fonderà l’Urss. Noi che ne abbiamo visto la tragica traiettoria e la fine ingloriosa, possiamo immaginare che tutto nacque fra la «piazzetta» e le rovine della villa di Tiberio.

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