Scintille tra Israele e Usa? È soltanto una finta crisi

Il viaggio del vicepresidente americano a Gerusalemme è la conferma del detto di Kissinger che «Israele non ha politica estera. Solo politica interna». È la sola possibile spiegazione dei «pasticci» che hanno marcato la visita del vice presidente americano, Joe Biden, preannunciata come quella della «ritrovata fiducia» fra Washington e Gerusalemme.
Pur conoscendo la sensibilità araba e americana per gli insediamenti ebraici nei quartieri arabi di Gerusalemme, il sindaco della città proclama la creazione di un «parco storico» in una zona araba adiacente alle mura della città vecchia. Netanyahu blocca il progetto. Gli americani lo lodano. Il ministro socialista Barak annuncia la creazione di 50 alloggi per ortodossi askenaziti nell'insediamento di Betar Eilit, considerato territorio occupato dai palestinese. Guadagna un punto con loro ma quando arriva Biden la commissione edilizia del ministero degli Interni (religiosi sefarditi) annuncia la costruzione di 1600 alloggi in Gerusalemme est. Un vero e proprio schiaffo all'ospite di cui il ministro si scusa affermando trattarsi di una decisone «burocratica» a sua insaputa. Nessuno crede alle scuse del ministro dell'Interno come a quelle di Netanyahu. Crisi aperta con Washington, grida l'opposizione. Ma Biden lascia il Paese, dopo le rituali affermazione di scontento per costruzioni che ostacolano il processo di pace, affermando che Israele e i palestinesi, se vogliono arrivare alla pace debbono trattare direttamente fra di loro. C'è una logica dietro tutto questo? No. Solo il gioco di interessi miopi di parte in una coalizione su cui il premier sembra aver perduto controllo. Ma ci sono anche alcuni fatti di base.
A A Netanyahu non dispiacerebbe una crisi all'interno della coalizione per liberarsi almeno di una parte di religiosi e ultra nazionalisti onde continuare a collaborare con Washington sulla questiona iraniana. Gli americani sperano che ci riesca e per questo non hanno interesse a indebolirlo.
B Washington ammette di aver sbagliato facendo della questione degli insediamenti la leva di pressione su Gerusalemme. Hanno lodato la «moratoria» di 10 mesi imposta da Netanyahu sapendo che solo lui può guidare il carrozzone politico israeliano oltre ad essere il solo alleato fidato nel Medio Oriente a cui ha bisogno di imporre in non intervento militare contro l'Iran.
C Abu Mazen ha compreso che ogni giorno che passa rifiutando di trattare lascia le mani libere a Israele di cambiare una situazione sul terreno. Rischia di vedere diminuiti gli aiuti finanziari americani e europei proprio mentre crescono i segni di tensione nella dirigenza di Hamas e le speranze di ritorno di al Fatah nella striscia di Gaza.

Il che dipende dal consenso di Israele con cui volente o nolente è obbligato a trattare anche perché questa è la volontà del governo del Cairo sempre più preoccupato della presenza radicale islamica lungo la sua frontiera a Gaza.
Questi «fatti di base» sono altrettante palle lanciate in aria nel «circo» israelo-palestinese. Il problema è che non si sa chi sia il giocoliere.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica