Da sempre l’Aula è frequentata da ragazzi turbolenti

Caro Granzotto, perdoni la mia franchezza ma proprio non ci siamo: la sua difesa del comportamento in aula del ministro La Russa, oserei dire la sua esaltazione, è provocatoria e inconcepibile per uno spirito liberale quale sicuramente è lei. Non si confanno in Parlamento linguaggi ed espressioni insultanti e non solo al riguardo del Presidente dell’Assemblea, ma a ogni componente l’Assemblea medesima. Ne va della credibilità oltre che naturalmente della dignità delle istituzioni. Lì e altrove simpatie e antipatie politiche non contano: conta il decoro e la buona educazione. Mi creda.
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Veramente io intendevo elevare un peana al Parlamento, caro Bonanno, volevo celebrarne la grandezza. Diciamo pure la magnificenza. Così come sono Camera e Senato non li si può che definire luoghi di estremo lusso, club esclusivi popolati da fantasmi. Mi segua: il novantanove per cento del potere legislativo si esprime nel chiuso delle commissioni, non in aula. Se poi l’Assemblea è proprio chiamata a votare, quattro o cinque ovvie, scontatissime dichiarazioni di voto e poi via coi pulsanti. E ciascuno vota come il rispettivo partito ha deciso si debba votare (alcuni, i «pianisti», votano anche per due, per tre). Quando poi è il momento della «question time» lo spettacolo lo conosce, caro Bonanno. Non più di una mezza dozzina di parlamentari fra gli scranni. Spesso manca addirittura colui che pose la «question». Gli altri, chi legge il quotidiano (preferibilmente sportivo), chi telefona, chi s’appisola e chi naviga sul computer portatile o l’iPad (gentilmente forniti loro a titolo grazioso). Tutto questo dal mercoledì al venerdì. Ogni tanto qualche trombone rispolvera la «centralità del Parlamento» e chiama questo o quel ministro a «riferire in aula» su un argomento scottante. Rito, quando celebrato, penosamente inutile. Riferire che? Se c’è già tutto - interviste, dichiarazioni, analisi, grafici, specchietti - sulla stampa? Né ovviamente contano, ai fini del bilancio, le frequentazioni alla buvette o al ristorante, le sedute dal barbiere (o parrucchiere, per le onorevoli). Mi pare ci siano anche delle palestre, da quelle parti. Certo comodi divani e comodissime poltrone dove schiacciare una o più pennichelle. Tutto ciò costa, a noi contribuenti, 2 miliardi e mezzo ogni anno che il buon Dio manda in terra. Il doppio della Francia. Il triplo dell’Inghilterra. Il quadruplo della Spagna. Non per voler girare il coltello nella piaga, ma solo per carta igienica e saponette profumate se ne vanno, nelle toilettes istituzionali, all’incirca 5 milioni, che son pur sempre 10 miliardi di lire.
Ebbene, caro Bonanno, quand’è che il Parlamento si riscatta, quand’è che mostra la sua luminosa «centralità», quand’è che sale agli onori della cronaca e quindi agli occhi e alle orecchie della pubblica opinione? Quand’è che scrollandosi di dosso il torpore finalmente i rappresentanti del popolo manifestano una passione civile? O mostrano d’esser meritevoli della delega (ancorché non vincolante) ricevuta dall’elettore? Sorbendo il caffeuccio alla buvette o infiammando l’aula abitualmente sorda e grigia? È in quelle occasioni, caro Bonanno, che i fantasmi di Palazzo Madama e di Montecitorio tornano carne e sangue onorando il ruolo e l’istituzione che rappresentano. Ci scappa un «non rompere»? Ci scappa un «vaffa»? Ci scappa un giornale lanciato con la spavalderia con cui Enrico Toti lanciò la sua stampella? Ma quella, caro Bonanno, è vita, è coinvolgimento. È partecipazione.

Laddove si decidono i destini della Patria non c’è spazio, come invece crede il suscettibile Gianfranco Fini, per il tartufismo del bon ton istituzionale. Quello va bene per i riti d’apparato, per le messe cantate della politica in ghette e marsina. Che poi è il nostro pane quotidiano, purtroppo.
Paolo Granzotto

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