Solo il centrodestra può portare avanti la rivoluzione liberale

Caro Granzotto, le scrivo in merito ad alcune sue considerazioni sui cosiddetti «liberal-chic». La situazione che si è venuta a creare, già prima delle recenti tornate elettorali, sapeva di «votate turandovi il naso». Serve a poco aggiungere che il Pdl sarebbe fatto di «un’altra pasta» rispetto alla «vecchia» DC. La malinconica costatazione di molti italiani è che la seconda repubblica non è mai nata! La prepotenza della burocrazia non è mai venuta meno, anzi, la pressione fiscale non sembra assolutamente essere diminuita, enti inutili e istituzioni parassitarie continuano a saccheggiare i nostri stipendi sotto forma -appunto!- fiscale, il pubblico impiego non risulta sia stato equiparato a quello privato. Se a tutto questo si aggiunge la scabrosità di alcuni comportamenti del premier, risulta francamente un quadro desolante! Rivoluzione liberale? Francamente non la vedo, a meno che non siano alcune «incursioni» filo-vaticane da considerarsi tali! Una nuova cultura in grado di proporre sotto nuova luce temi usati e abusati dalla sinistra... Manco per idea! Non è raro assistere a telegiornali di Mediaset nei quali si rende edotto il pubblico sull’incipiente tropicalizzazione del clima italiano... A questo punto, le chiedo: per un liberale che senso ha votare per il Pdl?
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Per un liberale avrebbe un senso votare non dico il Partito democratico, ma quello di Fini? Di Casini, caro professore? Avrebbe un senso, in mancanza della formazione politica ideale, rinunciare al voto, unico strumento di partecipazione attiva alla vita pubblica e chiudersi in un sussiegoso Aventino? In quanto al naso, mi dice lei quando, a partire dal 2 giugno del 1946, l’elettore liberale di nome e di fatto non se lo è turato entrando nella cabina elettorale? È esistito sì un partito che in qualche modo rappresentava gli ideali liberali, quello di Malagodi e di Bozzi, erede, un po’ discolo, di quello di Benedetto Croce, Carandini, Cattani, Pannunzio. Ma il massimo che ottenne fu, nel 1963, il 7 per cento dei voti. Dovendo per forza escludere che la società liberale sia così poco rappresentata, se ne deduce che una larghissima sua parte votava, turandosi il naso, per la Diccì. Partito di massa non certo di genuina impronta liberale, ma che con tutti i suoi difetti era almeno in grado di opporsi - con successo - all’antitesi della cultura che lei invoca, lo sbrago social comunista. Va poi aggiunto che il cittadino elettore di fede liberale perseguiva (e persegue) lo Stato e anzi il «sistema» liberale postrisorgimentale, quello dei governi Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti. Governi e sistema del galantuomismo, del decoro, rispettabilità e correttezza, dello spirito di servizio, della massima attenzione alle spese e della lotta agli sprechi. Ma che poté aver vita in una struttura democratica a suffragio limitato, selettivo e omogeneo: molto difficile se non impossibile da realizzare in una democrazia compiuta ovvero di massa, ciò che significa il colossale ampliamento del bacino del consenso - senza il quale non si governa - e, di conseguenza, la moltiplicazione delle esigenze, delle aspirazioni e dei fabbisogni del corpo elettorale. Non che non si possa far di meglio, caro Professore, ma la volontà di chi governa deve scontrarsi ogni giorno, ogni ora, con il sedimento di privilegi, malaburocrazia, consuetudine all’anarchia di bilancio, favoritismi, privilegi, egalitarismo sfrenato a danno della meritocrazia e altre molte resistenze, accumulatosi e cementatosi nei sessant’anni di vita repubblicana. Aprire brecce in quel sedimento è lavoro lungo e titanico.

Qualche volta, per giunta, il piccone colpisce a sproposito, altre con poca o nulla forza. Però se non l’impugna la destra, quel piccone, chi altri? La risposta che si darà, caro professore, è quella che cercava.
Paolo Granzotto

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