Solo le impronte salvano i bimbi rom

L avoro con i rom da 10 anni in un villaggio vicino a Bucarest, e pur essendo assolutamente certa di non essere razzista, pur essendo ancor più certa di essere cattolica, posso anche dire di essere d'accordo con il ministro Maroni e vi racconto perché.
Il 31 maggio 1998 andai per la prima volta in Romania e lo feci per lavorare a un progetto in favore di bambini sieropositivi abbandonati. Avsi, la Ong italiana con cui lavoravo allora - e lavoro ancora oggi -, era presente nel Paese già dal 1994, da quando cioè chi mi ha preceduto aveva incontrato la realtà di questi bambini abbandonati e dopo aver sviluppato progetti sanitari, riabilitativi, e di formazione aveva dato il via a nuovi progetti nella sfera educativa e sociale. (...) La realtà era drammatica: almeno 11mila bambini erano risultati infetti. Si era capito che questi bambini avevano bisogno non solo di cure, non solo di strutture belle, ma soprattutto di qualcuno che volesse loro bene e che li chiamasse per nome. E cosi si avviò il progetto che aveva come obiettivo quello di cercare le famiglie di origine di questi bambini per vedere se era possibile un loro ritorno a casa. Mi scontrai con il fatto che molti bambini non avevano una storia, non si sapeva da dove venissero, da che villaggio o città, quando erano nati, anche perché alcuni di loro non avevano nemmeno i documenti di identità. (...) Sempre nel '98, oltre ai bimbi istituzionalizzati che vivevano in questi orfanotrofi, incontrammo anche alcuni bambini sieropositivi che venivano a curarsi in uno degli ospedali di Bucarest ma che vivevano nelle loro famiglie, e vedemmo che molti tra questi provenivano da un unico villaggio abitato da rom. La prima volta che entrammo in questo villaggio, novembre 1998, incontrammo una realtà in cui vivevano quasi 3mila persone in condizioni inimmaginabili: case di terra e fango, senza servizi, senza acqua corrente; bambini senza scarpe che tranquillamente camminavano nel fango; uomini che ci guardavano increduli perché non capitava spesso di vedere delle macchine. (...) Nessuno era mai andato a trovarli. Nessuno, operatore sociale, medico o educatore, era andato in questo villaggio rom a incontrare i bambini e le loro famiglie, nessuno aveva chiesto loro «come stai?». (...) Uno dei primi lavori che feci, e lo dico ad alta voce, fu quello di «schedare» questi bambini: facemmo loro una «ancheta sociale» (che tradotto in italiano vuol dire «inchiesta», e non so se questo termine suoni più o meno forte di «impronta»), che non solo fu molto utile per noi per conoscere i bambini, ma fu importante anche per le loro famiglie perché fu il modo più rapido per fargli avere cure adeguate e per ottenere i diritti di cui potevano beneficiare. Quello che io ho imparato in questi anni, è che il punto non è l'inchiesta, il punto non è l'impronta! Ho imparato da don Giussani: le «leggi» e le «giustizie» possono schiacciare, se dimenticassero o pretendessero di sostituire l'unico «concreto» che ci sia: la persona, e l'amore alla persona. (...

) Abbiamo incontrato tanti altri bambini, ognuno con il suo nome, ognuno con la sua storia. Oggi nel villaggio rom sosteniamo 980 minori in tutto il percorso scolastico, e addirittura qualcuno ha iniziato l'università. Le «leggi e le giustizie» siamo noi che le applichiamo, e vi assicuro, possiamo farlo bene.

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