Verdi, il simbolo dell'Italia che cresce

In costante evoluzione, innovatore e cosmopolita. Sarà sempre attuale, più dell'immenso Wagner

Verdi, il simbolo dell'Italia che cresce

Oggi, alle ore 19 presso la Sala Sforzesca del Castello di Milano, si svolge l'incontro: Verdi, l'italiano. Riccardo Muti dialoga con Armando Torno in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (1813 - 2013). Qui pubblichiamo uno stralcio del libro di Muti Verdi l'italiano (Rizzoli, pagg. 218, euro 18,50). Inoltre il Maestro inaugurerà con il Simon Boccanegra di Verdi (27 novembre) la stagione del Teatro dell'Opera di Roma.

Verdi sarà sempre attuale, perché ha espresso in maniera inimitabile i sentimenti che caratterizzano l’umanità. Sono convinto che anche Wagner sia immenso, come è immenso Verdi, però penso, na­turalmente posso sbagliarmi, che nel futuro l’umanità avrà più bisogno di Verdi che di Wagner. Io ho diretto tanto Wagner nella mia vita, la sua musica è meravigliosa ed è ammaliatrice, è capace di drogarti.

Ricordo che Carlos Kleiber mi diceva, quando veniva alla Scala durante le mie prove delle opere wagneriane: «Al momento del risveglio di Brunhilde o nel finale del Crepuscolo, la musica diventa talmente sublime che potresti anche morire sul podio ». È vero: ti inebri a un punto tale – è come una droga che ti pervade, che ti attraversa – che perdi il senso del reale. Anche se cerchi di dominare la partitura con estremo spirito oggettivo, come potrebbe fare un direttore adusato a partiture di altro genere che quindi analizzasse Wagner in maniera clinica, a un certo punto la musica stessa prende il sopravvento e dall’orchestra si erge una colonna di suono che avvolge il direttore e i musicisti. C’è una magia che in quel momento ti brucia, e si brucia. Dopodiché sei travolto e stravolto. Quando dirigi Wagner, è difficile dopo liberartene: ti rimane addosso una specie di malia, di magia, che porti per lungo tem­po.

Però non dobbiamo dare a Wagner e al suo ingresso in Italia i meriti di aver trasformato Verdi, affermando che solo in questa occasione sarebbe entrato in contatto con una realtà europea diversa: Verdi era sempre in contatto con la realtà europea perché viaggiava, aveva diretto le sue opere a Vienna e a San Pietroburgo, era stato a Parigi.

Io amo talmente Verdi in tutta la sua arcata che non saprei scegliere una sua pagina in particolare. Possiamo dividere l’opera di Verdi in due parti: il primo Verdi,dalla prima opera fino all’ Otello ( lo stesso Verdi dice:«Fino all’ Otello ho scritto per il pubblico, con il Falstaff alla fine ho scritto qualche cosa per me»), e il Verdi della maturità: un lungo percorso che parte dal bel canto e poi, piano piano, va avanti in una maniera sempre più com­plessa, fino ad arrivare alla sublimazione del Falstaff . Tuttavia, nel corso degli anni, studiando Verdi e dirigendo alcune delle sue prime creazioni, come Nabucco , Macbeth , Ernani , Attila ,
oltre all’ouverture di Alzira e Un giorno di regno , sono rimasto molto colpito dall’aver riscontrato che gli elementi del primo Verdi tornano tutti nell’ultimo Verdi.

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Il mio impegno, al momento, in vista delle celebrazioni per l’anno verdiano, è rivolto allo studio del Simon Boccanegra .

Non l’avevo mai diretto perché è sempre stato molto difficile trovare un cast «all’altezza», però alla fine ho rotto gli indugi e mi sono convinto che era inutile aspettare.

Si tratta di un’opera che, grazie a Boito, è stata rimaneggiata dopo più di vent’anni.Verdi aveva già delle perplessità sul soggetto, che definisce triste, molto triste, molto desolante, aggiungendo: «D’altra parte è triste per­ché dev’essere triste».

Tra la prima versione e la seconda versione ci sono però parecchie differenze: si sente che sono passati tanti anni e soprattutto si sente che c’è la mano di Boito. Il Boccanegra , nella seconda versione del 1881, è un’opera bifronte, perché da una parte guarda avanti e lascia capire che Otello è alle porte,dall’altra in alcune cose guarda indietro, in un certo ricordo di opere del passato. In questo sembra quasi ritornare al primo Boccanegra , che viene dopo la trilogia e mantiene qualcosa di quelle opere popolari. Quindi c’è la convivenza di questi due elementi: un’opera che guarda avanti e un’opera che guarda indietro. Commentando la seconda versione, Verdi afferma: «Abbiamo raddrizzato le gambe al vecchio Boccanegra», perché lui sapeva, pur amando l’opera e considerandola non inferiore alle altre sorelle, che nella prima stesura non c’era teatralità. Nella seconda versione ci sono momenti di una notevole bellezza e soprattutto si sente che la mano della strumentazione di Verdi è diventata molto più raffinata, senza che Wagner abbia avuto una qualche influenza su di lui.

Il Boccanegra , nella seconda versione, ha certi passi che addirittura fanno presagire quelli che saranno i procedimenti armonici e melodici di Mahler. Ecco perché Mahler amava tanto il modo di strumentare di Verdi: lo avvertiva come affine.

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