Prima visione

Crimini di guerra e di pace; illusione d’esser migliori e scoperta d’esser peggiori; violenza e potere; delitto e castigo; follia e droga. Ecco le coppie complementari di Shutter Island («Isola isolata») di Martin Scorsese tratto dal romanzo L’isola della paura di Dennis Lehane (Piemme), passato per il Festival di Berlino e ora nei cinema italiani, con una caratteristica che lo appaia a Avatar: mostrare una delle reali stragi di prigionieri a opera dell’Us Army: quella dei militari tedeschi di guardia al campo di concentramento di Dachau. Al cui ingresso, però, campeggia una scritta che era in altro campo, e dove fiocca la neve, sebbene sia fine aprile (1945). Ma un film ha le sue esigenze...
Il criminale di guerra impersonato da Leonardo DiCaprio viene poi congedato senza disonore, e approda all’Fbi. Tra 1952 e 1954 scopre che il sistema repressivo americano nella Guerra fredda anticomunista ricalca quello nazionalsocialista nel decennio precedente: i reclusi in un manicomio criminale su un’isola di fronte a Boston sono cavie di esperimenti di manipolazione della personalità, finanziati coi fondi assegnati alla Commissione per le attività antiamericane. E i reclusi non sono tutti malati; in certi casi sono medici ribellatisi alla terapia che dovevano applicare agli altri. Alla persona proclamata pazza si toglie ogni credibilità: può dire tutto, ma non serve a niente. Dunque il potere, qualunque esso sia, è il male...
Ma se l’agente dell’Fbi DiCaprio fosse solo un ex agente? E se il suo fedele sottoposto (Mark Ruffalo) non fosse un sottoposto? E se i mefistofelici psichiatri (Ben Kingsley e Max von Sydow) fossero vittime di un malinteso? Scorsese si diverte a dire (per due ore) e a fingere di negare (per un quarto d’ora) che gli Stati Uniti valgano tanto quanto altri sistemi politici che hanno processato nei loro capi e nei loro militanti, da Norimberga a Guantanamo. Lo fa citando mezza storia del cinema, specie quello psichiatrico e carcerario, ma anche La donna che visse due volte, La scala a chiocciola, Le ali della libertà, ecc. Potrebbe rendersi ridicolo.

Se invece - specie all’inizio - la storia è avvincente, è per la bravura degli attori e del costumista. Due gli anacronismi lessicali, forse da attribuire al doppiaggio: parlare di Gulag, quando in Occidente nessuno usava ancora quel termine e dire «resettare» quando ancora i calcolatori erano a schede perforate.

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