Prima visione

Si straparla di diritti dell’uomo, ma solo i cittadini hanno diritti. Lo ricorda Il vento di primavera (In originale La rafle, ovvero La retata) di Roselyn Bosch, che arriva in Italia due anni dopo essere stato girato e uno dopo essere stato meritatamente stroncato all’uscita nei cinema francesi.
La vicenda degli ebrei, deportati nel luglio 1942, è remota per il pubblico scolastico al quale il film è essenzialmente diretto. Così la vicenda principale - arresto, internamento con successiva, non mostrata, deportazione - è intervallata da siparietti politici, dove si tenta, fra goffaggine ed errori, di mostrare come la Francia occupata subì l’imposizione tedesca di consegnare gli ebrei stranieri, che negli ultimi anni prima della guerra s’erano rifugiati in gran quantità nella regione parigina.
Il governo rappresentato da Pétain e Laval si oppose invece con successo, per il momento, alla consegna degli ebrei francesi. E questa differenza di trattamento - considerata inevitabile e in un certo senso auspicabile (per salvare almeno gli ebrei francesi) da de Gaulle già nel periodo di Londra - è diventata dal 1973, quando uscì il saggio di Robert O. Paxton sulla Francia di Vichy e il vasto consenso che aveva il suo governo, diventato trent’anni dopo (e lo è tuttora) motivo dell’ossessiva lacerazione tra francesi di ceppo e non.
Senza l’efficacia allusiva di Mr. Klein di Losey e dell’Ultimo métro di Truffaut o il respiro storico di Laissez-passer di Tavernier, Il vento di primavera ha dalla sua solo la dimensione del film tv, tempestato ora di didascalie ora di ridondanti vocativi per far capire allo spettatore chi ha davanti.


Il pathos è affidato alle vicende dei singoli qualsiasi e dei loro bambini, uno dei quali (Hugo Leverdez) è preso come simbolo di una generazione sterminata. Mélanie è l’infermiera che assiste la massa di deportati nella prima tappa del loro tragitto verso la morte. Ma, appunto, la rappresentazione di morti veri meriterebbe qualcuno più abile di Roselyn Bosch.

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