«Gobbo dalla nascita»

di Luca Beatrice
Non ce ne vogliano gli interisti, ma è Milan-Juventus la madre di tutte le partite. Quando altri veleggiavano tra quarti posti e zone Uefa, i rosso-bianco-neri dominavano per oltre un quarto di secolo il campionato italiano e (soprattutto il Milan) il palcoscenico europeo. Squadre che hanno imposto modelli sociali ed estetici nel nostro calcio, aldilà delle vittorie sul campo: la Juve autarchica e settantasettina del Trap, cui è seguita quella lussureggiante e dandy di Michel Platini; il Milan di Sacchi e degli olandesi che ha rappresentato la nascita del football contemporaneo, un’ipotesi tattica così visionaria e avanti rispetto ai tempi da azzerare completamente qualsiasi altro metodo e sistema. Ci sono stati poi il Milan cinico e chirurgico di Fabio Capello e il pressing asfissiante della Juve di Lippi prima e seconda edizione, la clamorosa rivincita di Carletto Ancelotti, bistrattato a Torino e trionfatore a Milano, fino all’impensabile approdo sulla panchina bianconera proprio di Capello, vincitore persino a Roma, capace di portarsi a casa altri due indiscutibili scudetti.
Così come è indiscutibile l’identificazione tra squadra e società, il Milan berlusconian-gallianesco, la Juve più Triade che Agnelli, forti sul tappeto verde, imbattibili dietro la scrivania. Diverse ma simili, al punto che il giornalista Paolo Rossi ebbe a coniare il fortunato neologismo «Milamentus», a suggellare un’ipotesi mai confermata, ma neppure negata, di una «santa alleanza» rosso-bianco-nera contro tutti gli altri.
A chiunque ne parli con disprezzo, gioverà ricordare che sono sempre loro, il Milan e la Juve, ad aver offerto l’ossatura alla Nazionale azzurra e regalato i giocatori simboli all’Italia intera, da Scirea a Baresi, da Cabrini a Maldini, da Tardelli a Pirlo, da Zoff a Buffon, da Nesta a Cannavaro, da Donadoni a Gattuso, da Baggio a Del Piero… E così sarà fintantoché verrà salvaguardata l’identità culturale del pallone dal scellerato tentativo di trasformare le nazionali in un ibrido di oriundi e mercenari.
Milan-Juve resta la summa simbolica del calcio italiano, nonostante il quadriennio di vittorie interiste (il titolo del 2006 non si conta, se vi è un limite alla decenza) e l’imposizione di una nuova frontiera globale, che magari rappresenterà il futuro di uno sport non più compreso nei propri limiti geografici, con squadre senza più alcun legame territoriale, prive di radici, vincenti non perché forti ma perché ricche. Eppure basterebbe contare quanti giocatori italiani scenderanno stasera in campo per rafforzare la convinzione che senza l’investimento ancora idealistico di queste due società, il nostro futuro sarebbe persino più cupo.
Ma c’è ancora futuro per Milan e Juventus, quando parlando di loro il tempo verbale prevalente risulta il passato? Riusciranno a riprendersi il ruolo centrale che hanno avuto fino al golpe giudiziario, con la simbolica appendice, nella primavera 2007, del Milan di Inzaghi vittorioso in Champions League, un trofeo che per i giudici non avrebbe dovuto disputare, mentre la Juventus andava a conquistarsi ad Arezzo la promozione in serie A, con gli stessi grandi campioni e uomini che l’anno prima avevano battuto il Real Madrid?
Hanno scelto metodi e strumenti diversi, Milan e Juve, per superare la crisi e interrompere il lunghissimo (per loro) digiuno di vittorie. I rossoneri puntando ancora una volta sulle stelle, seppure appannate, perché solo i giocatori di classe eccitano la fantasia del pubblico e fanno scattare il processo di identificazione tra noi e loro. E’ il Milan sornione di Dinho, Ibra e Robinho, un trio dai numeri infiniti, in grado comunque di risolvere la partita o di metterla sui binari sbagliati, se la giornata non è buona. Ma poi il fosforo è sempre Pirlo a mettercelo, e i muscoli sono quelli di Ringhio Gattuso, e la sicurezza in difesa passa ancora dalle parti di Nesta o dalle manone di Abbiati, veterani cui il nuovo mister Allegri non si sente di rinunciare perche i vari Antonini, Abate, lo stesso Pato, ovvero l’ipotesi futura, non offrono le stesse sicurezze del passato.
In casa Juve si respira un’aria strana e atipica: per la prima volta questa squadra non è condannata a vincere. Ci si acconterebbe di un onorevole piazzamento, minimo quarto posto, a scopo rilancio definitivo da mettere in piedi per i prossimi anni, che in fondo giustifica la scelta non eclatante di Gigi Del Neri. Il buon Lucianone Moggi inorridirebbe, ché non si può mettere in discussione un destino predeterminato di manifesta superiorità, ma il passato è passato e allora bisogna sapersi ridisegnare attraverso qualità in cui (noi) juventini non abbiamo mai primeggiato, almeno in sede dirigenziale e padronale: umiltà e ridimensionamento. Senza ripetere gli errori degli ultimi anni, evitando la fretta insomma, potremmo lasciar crescere Marchisio e Bonucci, Chiellini e De Ceglie, aspettare il ritorno di Buffon, confidare nell’anima fragile di Aquilani, persino rinunciare a Krasic (nella foto), accettandone la squalifica beffarda inflitta a mero scopo dimostrativo (alla Juve di oggi manca soprattutto il potere in Lega, e l’episodio lo dimostra chiaramente).

E se proprio dovesse mettersi male, basterà una punizione di Del Piero, 278 gol e 36 primavere soltanto bianconere, ovvero il passato che tiene in piedi il futuro.
Vada come vada, Milan-Juve è ancora una volta il clou del campionato e la notte di San Siro si accenderà, come sempre, sul rosso-bianco-nero. Gli altri, per favore, si accomodino davanti alla tv.

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