STORIE DI CINEMA

A volte mi chiedo perché ogni donna che ho amato fosse completamente pazza. Ma poi penso, che non è giusto dirla così... non proprio. Non tutte. Solo, diciamo, quelle dell’ultimo decennio e mezzo. Quelle - come altro posso spiegarlo? - che ho conosciuto da quando sono piombato a Los Angeles.
Non che il sottoscritto sia un santo. Stiamo parlando di un ex tossico, di un consumatore di crack in pensione, di un criminale mancato, ex scribacchino per riviste porno, uno di quei coglioni che scrivono per la tv commerciale, e figlio di uno che si è suicidato tramite elettroshock... insomma ce n’è abbastanza per dire che Los Angeles è il posto per quelli come me. E il Paradiso Americano delle Vite alla Deriva, la città a cui rivolgersi se hai bisogno di fare così tanti soldi da tirare fuori il culo dai guai.
Macabro ma vero. Una settimana dopo essermi impantanato a Hollywood negli anni Settanta, incontrai una donna di nome Tammi, che aveva due facce. Letteralmente. Tammi aveva fatto l’autostop fino alla Terra dei Sogni per «fare fortuna» e si era imbattuta in un chirurgo plastico che diceva di «conoscere» le persone e che l’avrebbe assunta se avesse fatto in modo di somigliare a Farrah Fawcett. «Volevano gente come Farrah per il mercato asiatico», mi spiegò, dopo due vodka quadruple in un bar di Hollywood che apriva alle sei del mattino, il «Pungee Room» \.
Nella luce di quel bar, Tammi ricordava incredibilmente la giovane Farrah Fawcett. Solo che, da diversa angolazione, non la ricordava affatto. Certo, la bocca era quella di Farrah, forse anche gli occhi, ma tutt’intorno e in mezzo c’era una sorta di paesaggio devastato, una topografia di cicatrici, una pelle così rovinata che, conciata in quel modo, poteva effettivamente assomigliare a Farrah, ma solo Farrah dopo un incidente, Farrah dopo che era passata attraverso una vetrata e caduta da un terrazzo, spaccandosi il naso contro una piscina a forma di fagiolo da cui tutta l’acqua era stata prosciugata. Quindi, per i miei occhi itterici e curiosi, divenne subito la Ragazza con Due Facce, emblema, da quel momento in poi, della bellezza nella festosa Los Angeles.
«È stato il dottor Skippy», mi confidò, piangendo sommessamente dentro il bicchiere di Wolfschmidt. «Aveva questo problema con la cocaina... Voglio dire, era nel ’74, tutti si facevano. E immagino abbia avuto una specie di crisi, una piccola convulsione, proprio nel bel mezzo del mio intervento. Me lo ricordo, perché ero sotto anestesia locale, e lui continuava a tenere sollevata la mascherina e tirare su col naso. «Ma - e a questo punto le scese una lacrima, sempre molto dolcemente, sul sottobicchiere dov’era rappresentato Forrest Tucker - ma lui era un vero professionista e così è andato avanti e ha finito la mia faccia». \
Inutile dire che mi innamorai perdutamente, fino ai lobi delle orecchie. Di giorno, lavoravo per quelli di Larry Flynt, ad Hustler. Il lavoro, per la maggior parte, consisteva nello scrivere gag da applicare a zucche e rape a forma di vagina che ci venivano inviate dal Dakota - patria, a quanto pare, di una grossa varietà di vegetazione evocativa di organi genitali. Mentre Tammi, Dio la perdoni, ballava in topless su tavoli in uno squallido locale di striptease vicino a Los Angeles. I suoi clienti erano quadri intermedi dell’industria aerospaziale, padri di famiglia che cercavano solo una piccola pausa dalla vita normale.
Di notte, dopo che si era truccata, potevo dimenticare i miei problemi e far finta, per una o due ore dorate, di essere l’uomo da sei milioni di dollari. Accanto alla mia quasi-Farrah, potevo quasi credere che la nostra piccola casa a Hollywood - nel distretto che, in modo non molto glamour, sorge ai piedi delle colline, che quasi lo sottraggono al sole - fosse in realtà una specie di piccola San Simeon. Nella giusta luce, a una certa angolazione, potevo davvero convincere me stesso di aver vinto il jackpot che combinava sesso e celebrità e aver realizzato il sogno americano. Che fossi, in altre parole, davvero arrivato a Hollywood e avessi davvero incontrato la mia Charlie’s Angel.
Tutta questa storia di Tammi/Farrah era pura fantasia, naturalmente. Ma ai tempi, questa era Los Angeles: la città costruita sull’orribile realtà che il nostro mondo è talmente brutto che abbiamo bisogno di un’industria che la ricrei, con toni più brillanti.
Saltiamo avanti di qualche anno - siamo in pieni anni ottanta ora - e la Dolce Tammi si è già ritirata sull’isola di Maui grazie ai soldi del rimborso ottenuto in seguito a un’altra disavventura con la chirurgia estetica: degli impianti difettosi, che le avevano lasciato un seno destro della dimensione di un kumquat, e quello sinistro simile a una zampa d’anatra ghiacciata. Mentre il sottoscritto, il solito ribelle, si ritrovava ricoverato al Cedar Sinai Hospital per disintossicarsi dalle droghe. Durante la disintossicazione entrai in contatto con una ragazza tremebonda, una aficionada delle metanfetamine di nome Tanya, figlia di un re della sitcom degli anni Sessanta e della sua au pair cilena. La combinazione aveva dato come risultato una favolosa ragazza dagli occhi verdi e la pelle bruna, con un fondo fiduciario bruciato, e una testa da Medusa di dreadlocks biondo rame.
Naturalmente, Tanya e io legammo molto durante i miei venti minuti puliti di post-hospital. Dopo di che, bene o male, la mia entrée nella Los Angeles reale, la Los Angeles più profonda - o quella che era una versione particolarmente meschina di essa - mi colpì come una botta di adrenalina. Tipica sud-californiana, la piccola Tanya aveva lasciato la casa sulle colline a 16 anni per farsi strada nel mondo. Il che, dato che si trattava di Hollywood e tutto il resto, significava che aveva finito per fare ruoli da dominatrix in uno studio chiamato «Madame D», un rifugio discreto e ben arredato, ottimo per dare lavoro a devoti del dolore di alto profilo. \
In qualche modo arrivai a una strana conclusione per quanto riguardava il posto in cui abitavo. Mi colpì che esistesse una sorta di pozza sotterranea di ipocrisia e autodenigrazione e desiderio tossico, da cui scaturiva l’ispirazione vera di Los Angeles. La verità è che tutto, in questa città, esiste in quanto opposto di un proprio falso. Così che, nonostante il clamore e le chiacchiere, non è una questione di soldi, né di fama, e nemmeno di intrattenimento. Neanche lontanamente. In questo mondo ricostruito in miniatura e chiamato Hollywood, ciò che conta davvero è la distorta idea di redenzione di questa gente visionaria e vuota che cerca di riempire le proprie vite con quella sostanza di cui le loro creazioni, quelle simulazioni di vita chiamate TV e film, mancano del tutto. Da qui lo stuolo di false Farrah (o, ai tempi nostri, di false Julia Roberts), le montagne di copioni scritti da universitari che non sono mai nemmeno stati presi a schiaffi da una puttana, il crescente traffico di torture sovvenzionate da grossi imprenditori dell’intrattenimento per l’infanzia il cui dolore per il proprio status è l’unica cosa che possono davvero sentire. Tutto questo ha un senso.
O forse no. Almeno metà decennio è passato dalla maggior parte delle follie malsane sopra descritte.

E penso, ho il sospetto, che forse non si tratti della città. Forse non sono le donne o la droga. Forse - chiamatemi pure «calamita» per i tizi strani - sono soltanto io. Intendo dire che questo è il mio mondo.
E non riesco ad abbandonarlo.
(Traduzione di Nicola Manuppelli)

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