Quali che siano i risultati di pubblico e di share, I colori della gioventù è già un successo per la Rai, che per prima ha finalmente superato un tabù culturale e politico fra i più ridicoli e insensati della società italiana. Infatti da noi il futurismo ha una specie di bolla di infamia, a causa di una - tardiva e parziale - contaminazione con il fascismo. In compenso viene sempre più ammirato e studiato in tutto il mondo come uno dei fenomeni artistico-culturali più rilevanti del Novecento, capace come fu di stravolgere i rapporti tra arte e vita, con conseguenze che vanno enormemente al di là del fascismo e della stessa politica.
Non a caso si resero conto della spinta rivoluzionaria futurista anche politici e intellettuali comunisti e liberali: più e meglio di Mussolini, che addomesticò il movimento quando ormai era al termine della sua spinta propulsiva. Nel 1920, durante il congresso dell'Internazionale, il commissario del popolo (e drammaturgo) Anatolij Lunacarskij definì Filippo Tommaso Marinetti il solo intellettuale rivoluzionario italiano. Qualche mese più tardi, dalle pagine dellOrdine Nuovo Antonio Gramsci fu appena più cauto e alla definizione del compagno sovietico aggiunse un prudente punto interrogativo. Lenin, dal canto suo, in un risentito jaccuse, rimproverava i socialisti di avere osteggiato i soli che avrebbero potuto «fare come in Russia»: Marinetti, appunto, e con lui dAnnunzio e Mussolini. E qualche anno più tardi, il campione del liberalismo progressista Piero Gobetti non esitava a definire il fondatore del futurismo «il maestro autentico degli italiani» e «luomo più rappresentativo dellepoca».
In ventanni di declamazioni e manifesti, libri e trasgressioni, Marinetti ne aveva fatta di strada, agitando le acque della cultura provinciale italiana impaludata nelle sabbie mobili della retorica classicista e carducciana. Un successo che pochi avevano previsto, quando nel salotto dellappartamento milanese di Via Senato 2, cominciarono a darsi convegno i primi adepti, catturati dalle suggestioni creative di quel milionario antiborghese. Difficile resistere alle fascinose risonanze della poesia simbolista, che il giovane Marinetti aveva fatto proprie nelle frequentazioni parigine dopo linfanzia trascorsa a Alessandria dEgitto. Le colonne raffinate e tipograficamente stupefacenti della sua rivista Poesia divennero in breve tempo il laboratorio internazionale di un nuovo linguaggio poetico e di uninedita cultura rivoluzionaria, che avrà il suo esaltante apogeo nel manifesto di fondazione del futurismo, pubblicato non a caso sul parigino Le Figaro, nel 1909.
Iniziò così lavventura di una cultura esuberante e incendiaria, che non si accontentava di un rinnovamento affidato solo alla letteratura, ma proponeva una trasformazione radicale delluomo, dallaspetto artistico a quello morale. Lideologia marinettiana non si limitò alla glorificazione della civiltà delle macchine e la sua modernità non si ridusse allelogio acritico della tecnologia e della velocità. Il «feticismo della macchina» non esaurì il significato del futurismo, che invece fu un movimento globale, capace di abbracciare tutti i campi dellesperienza umana, fondandosi sul rinnovamento della sensibilità e della psiche per gli effetti della scienza e del progresso. Una tale intuizione, che oggi appare fin troppo facile, ebbe una enorme influenza sugli studi più avanzati e disparati, per esempio sulla sociologia di Marshall McLuhan. Marinetti fu, del resto, tra i primi a avere chiara la necessità di aggiornare la figura dellintellettuale, diffondendo la creatività tra la folla e facendo dell'arte un bene collettivo. A questo progetto rimase sempre fedele, come alla sua vocazione allimpegno politico, che lo portò prima a essere lanima dellinterventismo, poi a esprimere lutopia di un fascismo diciannovista, anticlericale e antimonarchico, rappresentando uninquieta spina nel fianco di quel regime che pure lo celebrò fino a nominarlo Accademico dItalia.
Eppure le implicazioni politiche del futurismo fanno ancora così paura alla prudenza italiana che si è preferito raccontarlo attraverso la vita di Umberto Boccioni, troppo breve per arrivare al fascismo: era nato a Reggio Calabria nel 1882, in una famiglia modesta, e morì già celebre, in guerra, nel 1916.
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