Tanti soldi e informazione Ecco la scelta della Francia

Il deposito, che è il modello per quello italiano, è stato realizzato in una delle regioni più note del Paese, la Champagne. Latte e prodotti agricoli sono sottoposti a continui controlli

di Gian Maria De Francesco

«N el 1990 i cittadini dell'Aube si espressero contro l'insediamento del deposito nazionale di rifiuti radioattivi, ma poi il governo ci ha spiegato che i rischi erano contenuti, le ricadute occupazionali positive e i vantaggi economici notevoli». Françoise Donizet, sindaco di Ville-aux-Bois, la racconta così. L'arrivo del deposito nazionale in piena Champagne all'inizio degli anni '90 fu uno choc per questa piccola comunità di 2.800 abitanti sparsi in 21 Comuni. «Il fatto che l'Agenzia nazionale per le scorie nucleari, cioè lo Stato, si facesse garante verso la popolazione ha contribuito a tranquillizzare la cittadinanza». Anche in Francia (58 centrali nucleari che funzionano a ciclo continuo) imperversano le stesse paure che esistono nel nostro Paese (zero centrali). «Il nostro Label Rouge (il cavolo rosso della Champagne), il latte e i prodotti agricoli sono continuamente monitorati: è un po' noioso, ma sappiamo di essere al sicuro», aggiunge Philippe Lièvre, sindaco di Juzanvigny. Da più di vent'anni il centro di stoccaggio de L'Aube è un interlocutore silenzioso di questa regione che fa dell'agricoltura e dell'enologia il suo core business.

Ma di che cosa si tratta veramente? Il Centro di stoccaggio dell'Aube è una struttura, aperta nel 1992, che è destinata a ospitare un milione di metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media intensità (ossia con decadimento degli isotopi e perdita della radioattività entro 300 anni; ndr ) in enormi scatoloni di calcestruzzo armato denominati «celle». I rifiuti, a loro volta, sono contenuti da moduli a forma di parallelepipedo all'interno dei quali sono effettivamente cementati manufatti di calcestruzzo che al loro interno ospitano contenitori metallici pressati nei quali sono presenti i rifiuti. Essi provengono non solo dalle centrali (60% del totale), ma anche dagli impieghi industriali, ospedalieri e della ricerca scientifica (il restante 40%). Nel 2052, quando si stima che le celle dell'Aube saranno piene, tutto sarà ricoperto da terreno con la creazione di una collina multistrato. Le celle già poggiano su uno strato di terreno argilloso e quindi impermeabile ed eventuali liquidi o condense sono raccolti e monitorati. Il rischio di inquinamento di eventuali falde è pressoché nullo. Anche dopo essere entrati nelle celle i rilevatori di radioattività applicati ai visitatori non segnalano variazioni.

Il modello del deposito nazionale italiano, previsto dalle normative Ue per ciascun Paese, sarà quello dell'Aube anche se sarà molto più piccolo (150 ettari di cui 110 per 75mila metri cubi di rifiuti e 40 per un parco tecnologico). Solo lo 0,08% del nostro territorio sarà inserito nelle aree potenzialmente idonee. I criteri dettati dall'Ispra escludono zone a rischio sismico, idrogeologico, di altitudine maggiore a 700 metri e a intensa urbanizzazione. «Le procedure italiane saranno ancor più stringenti di quelle francesi», assicura l'ingegner Fabio Chiaravalli, direttore del deposito nazionale, ricordando che «i rifiuti nucleari non esplodono» e che «il deposito è a prova di attacco terroristico». Inoltre, la consultazione pubblica che si avvierà per definire le aree idonee e le eventuali candidature (che non saranno vincolanti) «è destinata a rivoluzionare i metodi per realizzare le infrastrutture».

Ci sarà un ampio coinvolgimento delle popolazioni atteso che il deposito comporterà un investimento i 1,5 miliardi, 700 posti di lavori e sostanziosi canoni di affitto per i terreni. E se nessuno lo vorrà in casa propria? «Resteremo con i nostri 23 depositi locali difficili da gestire e da controllare», conclude preoccupato dall'ennesima ondata Nimby.

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