Qualche anno fa aveva intrapreso una battaglia personale contro il numero chiuso a medicina. Suo figlio non aveva superato il test e quello era stato lo spunto per avviare una riflessione sulle regole della facoltà. Ora Alberto Zangrillo, direttore dellunità operativa di Anestesia e rianimazione cardio-vascolare al San Raffaele, torna a riproporre il suo cavallo di battaglia: cambiare i test dingresso.
Dottor Zangrillo, innanzitutto ci tolga una curiosità: suo figlio?
«Non è diventato medico ma si è laureato in economia ed è contento dei suoi studi. Allepoca mi ero scagliato contro i test non tanto perché lui non era passato ma perché li trovo un metodo superato».
E così il numero chiuso?
«Sì, è ora si allargarlo. Mi rendo conto che le difficoltà tecniche e logistiche sono tante. So perfettamente che mancano le aule. Ma bisogna trovare il modo per estendere gli accessi a medicina».
Ne ha parlato negli incontri in Regione Lombardia?
«Cè stato un confronto con il direttore sanitario Carlo Lucchina e con i presidi delle facoltà. Siamo tutti daccordo sulleliminazione del numero chiuso anche se i problemi non mancano».
Secondo lei i test dingresso non sono un buon metodo di selezione?
«Così come sono no. Cè una quota di ragazzi che viene falcidiata pur avendo le caratteristiche per frequentare medicina».
Quindi?
«Andrebbero eliminati. E si potrebbe introdurre una valutazione alla fine del secondo anno per vedere se gli studenti hanno una buona media, sono in corso e stanno rispettando i tempi. Ecco, questo sarebbe un metodo di giudizio più obbiettivo».
Una sorta di sbarramento al secondo anno?
«Più o meno. In questo modo eviteremmo ai ragazzi che vogliono diventare medici di utilizzare delle scorciatoie».
Cosa intende per scorciatoie?
«Tanti studenti che non entrano a medicina si iscrivono a facoltà affini, come Farmacia, e poi si spostano a medicina chiedendo che vengano riconosciuti gli esami. Sarebbe meglio tenerli in facoltà e controllare la loro preparazione dopo un paio di anni».
Cè troppa chiusura nei metodi attuali?
«Diciamo che i grandi atenei internazionali sono più aperti alla globalizzazione. Oxford, Ucla, le università tedesche: anche noi dobbiamo essere in grado di accogliere le eccellenze a aprire agli studenti stranieri».
Quindi il problema non è solo la quantità dei medici ma anche la qualità?
«In un certo senso si. Ad esempio, è importante che durante gli studi di medicina i ragazzi imparino bene linglese».
Al San Raffaele cè un corso di medicina in inglese, vero?
«Sì, ma è visto come una perla rara. Invece dovrebbe essere così in tutti gli atenei. È un primo passo verso la globalizzazione. E poi bisogna puntare sulla ricerca, promuovendola il più possibile».
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