Thomas Jefferson non è lo sponsor dei matrimoni gay

Caro Granzotto, il Senato di Albany, capitale dello Stato di New York, ha legalizzato il matrimonio fra fidanzati dello stesso sesso. La sinistra ne parla come della presa della Bastiglia. A lei fa la stessa impressione?
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Lì per lì non colsi la dimensione storica della vicenda, caro Felici, questa è la verità. Colpa mia, del mio poco comprendonio e del non essere propriamente un cultore della materia. Per fortuna, a colmare la mia imperdonabile lacuna sono sopraggiunti due repubblicones d’altro lignaggio, Federico Rampini e il buon Vittorio Zucconi. E tutto mi si è fatto chiaro. Bastò, a illuminarmi la via, il titolo dei due paginoni - illustrati da immagini che non esito, ora che so, ora che ho capito, a definire toccanti con tutti quegli abbracci, quella pittoresca gaiezza - dedicate all’evento: «Un voto che riaccende il sogno americano». Lo sapeva lei, caro Felici, che l’America sognava di veder uniti in matrimonio i John con i Bob e le Mary con le Jane? Io no. Né sapevo che il fuoco onirico fosse spento e che dunque il voto del Senato di Albany abbia avuto la funzione del prospero che ne ravviva la fiamma. Lei giustamente non legge Repubblica, ma creda a me: per partecipazione emotiva, ideologica e, oso aggiungere, culturale; per solennità di un linguaggio, oso ancora aggiungere, di timbro mussoliniano - del Mussolini di: «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria!», per intenderci -; per profondità, richiami storici e freschezza descrittiva; per quell’atto di fede che vi traspare, riassumibile in un appassionato: «non possiamo non dirci tutti omosessuali», gli elaborati di Rampini e Zucconi meritano un posto d’onore nell’antologia «sinceramente democratica» delle cose mirabili e memorabili. Scrive Zucconi che per capire «l’enorme portata» del voto a favore del «vincolo d’affetto contrattualizzato» fra omosessuali bisogna risalire al 1776. A Thomas Jefferson. Che non è che avesse un penchant per i gay, questo lo ammette anche Zucconi, però è come se. Basterebbe leggergli nel pensiero. Jefferson, ma anche Luther King. Poteva mai mancare Luther King e il suo «I have a dream...»? No, non poteva mancare. E allora ecco qua: «Come Luther King sognava che l'America diventasse cieca davanti al colore della pelle (...) i repubblicani che hanno votato a favore della legge hanno detto che il loro Stato deve essere cieco di fronte alle inclinazioni e alle scelte dei propri cittadini in materia di sessualità». Qui - ci risiamo col mio comprendonio - proprio non l’ho capito, lo Zucconi. Avrei detto occhi aperti, spalancati, per cogliere al volo e denunciare ogni qualsivoglia atteggiamento discriminante quale poteva essere, giustappunto, non riconoscere ai gay il privilegio di unirsi nel «vincolo d’affetto contrattualizzato». Come non ho pienamente compreso il senso di quest’altro auspicio zucconiano: «Esisterà una chiesa disposta ad ammettere che anche i gay sono figli di Dio come gli altri»? Tutte, a quanto se ne sa, lo ammettono. Nessuna fa dei gay figli di Satana o dell’oca bianca. L’unico impiccio è che per qualcuna, la nostra ad esempio, il sacro vincolo del matrimonio è riservato all’unione fra uomo e donna. Principio che data ben prima del 1776. Ma orsù, suvvia, questi sono dettagli che non inficiano la «portata civile» dell’articolo. Ué, caro Felici, stiamo parlando della riaccensione del sogno americano, mica di De Magistris e della sua monnezza. Stiamo parlando, almeno così sostiene Zucconi, di «storia, quella che rimane» e che non può tener conto delle obiezioni fanatiche e bigotte che «vanno e passano come il vento».

Intanto, scrive Rampini, il vento sta gonfiando le «bandiere arcobaleno che sventolano da tutte le finestre del quartiere», la qual cosa significa che il movimento pacifista finalmente s’è dato una mossa. E sfila «in pellegrinaggio», seguita Rampini, davanti allo Stonewall Inn, una specie di sacrario, par di capire, che promette: «Lesbo a go-go» (sponsor, Thomas Jefferson).
Paolo Granzotto

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