Troppi pregiudizi sul passato coloniale

Caro Granzotto, dopo oltre mezzo secolo di oblio e rimozione del passato coloniale, condannato in blocco come riprovevole e nefando, è forse arrivato il momento di riconsiderare quell’epoca con occhio più sereno e obiettivo, depurata dai pregiudizi ideologici e dalle falsità della propaganda. Lo spettacolo della più massiccia e caotica invasione immigratoria dell’Europa da parte di milioni di ex colonizzati africani e medio orientali ci offre l’occasione di un ripensamento serio. Il Terzo Mondo ha clamorosamente fallito e l’Europa, con tutte le migliori disposizioni, non potrà a lungo sopportarne il peso economico, sociale e politico. Di chi la colpa se l’Africa è regredita ai livelli attuali di miseria, malattie, guerre? È un capitolo, poco esplorato, di cui mi sto occupando con viaggi nel nostro ex «impero coloniale». L’idea prevalente nell’Ottocento era che «all’Europa spettasse il compito storico di valorizzare quella enorme distesa di terre, debellare l’inerzia dei secoli, superare e vincere deserti, portare dovunque la vita, la redenzione». Altro che sfruttamento! Su questa menzogna l’Africa accampa diritti inesistenti, come le riparazioni per il passato coloniale chiesto da Gheddafi all’Italia. Sono stato in Etiopia, in Somalia, in Eritrea. Strade, ferrovie, ospedali sono ancora quelli costruiti dagli italiani, se non sono stati distrutti. Il colonialismo impose il dominio europeo, d’accordo, ma portò leggi civili, governi moderni, benessere, mise pace tra i clan, abolì la schiavitù. Rudyard Kipling fu tra i più convinti assertori della «missione civilizzatrice» dell’Europa e nel 1898, al tempo della guerra ispano-americana, scrisse la famosa poesia intitolata: «Il fardello dell’uomo bianco». Cito solo un verso: «Raccogli il fardello dell’Uomo bianco - Le guerre feroci del tempo di pace - Riempi la bocca degli affamati - E prometti la fine delle malattie». Oggi l’Africa è in peggiori condizioni di prima; e tocca a noi europei, che ci diamo la croce addosso, mantenere i despoti come Mugabe e degli altri tiranni che hanno distrutto ciò che gli europei avevano costruito.
Romano Bracalini e-mail


Non vedo in giro molti occhi «sereni e obiettivi» che vogliano riconsiderare il colonialismo senza il filtro dei pregiudizi ideologici, caro Bracalini. Ce ne sono, non dico di no, ma sull’argomento domina ancora il luogo comune e montano la guardia i vigilantes della vulgata. Per cui, meglio non farsi troppe illusioni. Però i fatti sono i fatti: è passato mezzo secolo dal processo di decolonizzazione, tempo più che sufficiente alle ex colonie per manifestare l’insieme di quei valori, meriti, virtù, attitudini, capacità intellettuali, sensibilità politica e culturale che il colonialismo avrebbe loro impedito di esprimere. Per dirla tutta: gli Idi Amin Dada, i Kenneth Kaunda, gli Haile Mariam Menghistu, i Farrah Aidid o i Robert Mugabe non sono la conseguenza del colonialismo, ma una delle realtà della decolonizzazione. E non c’è ideologia, non luogo comune insitato nei cervelli che possa smentire questa realtà.

Con la quale bisogna fare i conti, liberi da complessi di colpa e dal virginale timore che la fermezza sia assimilata al razzismo. A Lisbona Gordon Brown e Angela Merkel hanno chiaramente dimostrato d’esser di questa opinione. E prima o poi, vedrà, caro Bracalini, l’intendence suivra.

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