La vera poesia è quella che resiste all’inciviltà

Le api dell’invisibile (Medusa) è uno di quei libri che si prestano, per una incorreggibile vocazione alla chiarezza, a suscitare un plebiscito di polemiche o, rovescio della medaglia, di indifferenza.
La recensione di Davide Brullo uscita ieri su queste pagine è riuscita nell’intento di frequentare entrambe le strade. A Brullo, diciamolo apertamente, di queste Api dell’invisibile importa poco, è un pre-testo, e non solo per qualche brillante divagazione in materia di zoologia. Ciò che gli importa è marcare il perimetro di una terra di nessuno, che tale deve restare, spaventando preventivamente con lo strumento della polemica sprezzante e preconcetta chiunque si presenti senza lasciapassare nei paraggi di un limes di cui ci si sente i custodi esclusivi. Il guaio è che proprio questi ultimi quarant’anni dimostrano come certe strategie conducano desolatamente alla liquidazione di ogni possibilità concreta di discorso critico, riducendolo a una storia di stati emotivi, di paure e attrazioni, di inquieti movimenti nel vuoto, accompagnati da metafore aggressive come in una «guerra fredda», dove le intelligenze umane riescono soltanto a scontrarsi. Certo, da simili contesti è facile che emergano personalità vivaci e anticonformiste, ma a che scopo? Dal momento che questo giocare sfacciatamente con le maschere non solo non apporta alcuna autenticità che possa valere come normativa, ma si frantuma nelle schegge della più inutile erudizione: un insieme di nozioni non approfondite criticamente e neppure amalgamate in modo organico.
Il punto debole del castello accusatorio è nelle imputazioni più gravi: una pusillanime acquiescenza da parte mia alle mode correnti, semmai intonate ai desiderata editoriali; una colpevole miopia nei confronti del meglio della poesia coeva, che verrebbe «dalle quarte file», da poeti trentenni «che non soffrono di perbenismo culturale né di afrori postsessantottini» (stendo un velo pietoso su ciò che è detto della «cultura proletaria»).
Mi chiedo: a quale deriva assurda si andrebbe incontro seguendo alla lettera un simile proponimento? Nessuno potrebbe più parlare dei poeti che hanno «fatto» la poesia di questi ultimi decenni, perché ci sarebbero un bel po’ di trentenni, casualmente accolti in un’antologia, intitolata La stella polare (uscita nel 2008 da Città Nuova, curata dallo stesso Davide Brullo, ndr) - ad annunciare un novus ordo saeclorum. Non ci sarebbe più bisogno di cominciare ogni scrittura, leopardianamente, da una conoscenza del passato. Basterebbe seguire la traiettoria della prima stella polare che passa, e saremmo sulla strada giusta. Possibile? Alla luce di una simile prospettiva possiamo almeno comprendere il vero peccato originale del mio saggio: Le api dell’invisibile non è una Stella polare, è tutta un’altra cosa; e ciò da un punto di vista brullesco deve riuscire fastidioso.
Quanto alle mode: c’è qualcosa di più démodé che inaugurare scientemente una lunga panoramica sulla poesia del nostro tempo con due poeti di natura e di infanzia come Umberto Piersanti e Fernando Bandini? Ovviamente Brullo non degna di un cenno questi due nomi, preferendo esercitare la sua eloquenza polemica con i nomi in rilievo di De Angelis, Viviani ecc., talmente inscalfibili da prestarsi al gioco delle ambivalenze affettive che contraddistingue il rapporto dei sottoposti nei confronti del «Totem» di turno. Altrettanto grave è il silenzio nei confronti di quel Sauro Damiani, classe 1941, autore di un solo, splendido libro, il Canto dell’amore assente; talmente avvezzo a lavorare seriamente, fino al fondo delle cose senza temere stroncature, da insistere con un’opera certosina nella ricerca di una forma necessaria.

È azzardato affermare che in simili manifestazioni di grazia e di consapevolezza la poesia può ancora cercare, al di là delle dispute generazionali, una sua rinnovata vitalità ben oltre le volontaristiche menate tardo decadenti del poeta «fuori dal mercato, fuori dai giochi, fuori di testa»?
Caro Davide, che questa nostra giovinezza mefistofelica e un po’ falsa (trent’anni non sono già tanti?) lasci presto il posto a una epoca più responsabile della nostra vita, in cui sia dato combattere innanzitutto per l’uomo, che è sempre creatura, più che per le poetiche, ritrovando nella poesia un luogo vero di resistenza all’inciviltà, e di conservazione dell’umano. È questo in fondo il senso delle mie Api. O forse non te ne eri accorto?
*curatore de «Le Api dell’invisibile»

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