Giuseppe De Bellis
Ci vuole poco per mentire al telefono. «Pronto. Lei per chi voterà il 4 novembre, per Obama o per McCain?». I sondaggi in Virginia saggiornano ogni sei ore perché cè qualcosa che non torna. Strano, dicono tutti. Lincubo dei democratici è la bugia che corre sul filo, da un capo allaltro, tra il call center che compone il prefisso 703 di Alexandria e lelettore che risponde. «Obama, Obama, Obama». Il 52 per cento va a lui, il 45 a McCain. Sette punti. Troppi. Così tanti che neanche lo staff del senatore dellIllinois si fida: il sospetto è che qui la gente menta. LAmerica è pronta per Obama? La domanda martella le tv, ritorna negli uffici dei volontari dei candidati. Poi arriverà nelle urne. Lì sì saprà. Lì, solo lì. Perché prima del 4 novembre quello che arriva via telefono vale poco. Te lo dice Ken Ringle, un signore che vive qui da sempre e che ad Alexandria ha frequentato la Episcopal High School, la stessa di John McCain: «La gente della Virginia ha paura di essere accusata di razzismo. Allora quando ricevono le chiamate per i sondaggi, rispondono tutti che voterebbero per Barack, poi non è certo che lo facciano».
Sette punti. Veri o supposti a questo punto è unincognita. Qui in Virginia, ma non solo, perché ogni giorno cè un numero che balla, ogni istituto ha i suoi conteggi: si passa dal più 14 al più 5. Il caos, più o meno. Il caos che adesso qualche sondaggista certifica, come ha fatto Rasmussen: due giorni fa ha scritto sul suo sito che i risultati delle rilevazioni in Virginia sono incerti. La sua stima del vantaggio di Obama è di appena quattro punti. Quattro punti, non abbastanza per contenere leffetto Bradley, cioè quello strano fenomeno che ritorna ogni volta che si parla di un afro-americano. Parte dal 1982, quando Tom Bradley, candidato democratico a governatore della California era in vantaggio di sei punti nei sondaggi, ma perse le elezioni: la gente non aveva il coraggio di dire che non lo votava per il colore della pelle, ma al chiuso dellurna lo boicottò. Qui cè di più. Bradley è un dettaglio che si perde nel mare di questo Stato che confina con lAmerica politicante di Washington, ma che è tutto unaltra cosa: qui si aprono le porte del Sud diffidente con gli afro-americani, post-razzista e conservatore, qui si passa in cinque chilometri dalle vie delle lobby, alla campagna pura. Questa è una terra di presidenti: ne ha fatti nascere otto, compresi Washington, Jefferson, Madison e Monroe.
I sondaggi non hanno tradito solo una volta. Obama lo sa, altrimenti perché ieri era qui a caccia di voti? Due appuntamenti a distanza di tre ore luno dallaltro, 300 miglia coperte di corsa. Pieni, i comizi. Ma basta? Sette punti e la folla che lo segue saranno sufficienti? Davanti al piccolo quartier generale di McCain ad Alexandria, i fan del repubblicano sono certi che la partita sia aperta. Ripetono una storiella diventata il mantra della loro campagna anti-sondaggi: «In Virginia in pochi dicono ciò che pensano, soprattutto quando un estraneo telefona a casa allora di cena». Il problema di Obama è che questa frase la dice identica Franklin Foer, direttore di New Republic, influente periodico filo-democratico: «Non so quanto ci si possa fidare dei sondaggi da queste parti. La gente ha paura di essere giudicata male e spesso non dice la verità». E la verità è quella dei numeri definitivi, che arrivano al conteggio delle schede.
In Virginia, i democratici non vincono le presidenziali dal 1964, hanno vinto lultimo seggio al Senato, ma per farlo hanno dovuto candidare Jim Webb, un ex sottosegretario alla Marina nellAmministrazione Reagan. Stanno per eleggere Mark Warner, lex governatore amato perché è uno dei liberal meno liberal che ci sia. Fa la campagna per Obama.
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