Cronache

Nardò, viaggio nel ghetto dei braccianti africani ​sfruttati nei campi pugliesi

Ecco dove vivono come "fantasmi" i braccianti africani, costretti a lavorare a cottimo e vessati dai caporali nelle campagne salentine

Nardò, viaggio nel ghetto dei braccianti africani ​sfruttati nei campi pugliesi

Nardò, provincia di Lecce. Qui arrivano tra giugno e agosto centinaia di africani che vengono impiegati principalmente nella raccolta di pomodori e angurie, tra il Leccese, il Brindisino e il Tarantino. Alcuni si fermano anche in inverno. Molti arrivano già da marzo, per essere impiegati nella piantumazione e nella raccolta delle patate, e iniziare a prendere contatto coi datori per cercare di assicurarsi il lavoro estivo. Altri restano tutto l'inverno.

"Negli ultimi anni – spiega Angelo Cleopazzo, vicepresidente di Diritti a Sud - la fase della piantumazione e quella precedente della semina, viene curata da donne originarie di Leverano, Copertino e San Pancrazio".

Nardò è uno snodo centrale del sud Salento. Qui arrivano gli africani intenzionati a lavorare nei campi per una manciata di euro al giorno. Qui cercano alloggi principalmente di fortuna. Da qui vengono a prenderli i trasportatori che (a pagamento) li conducono nei luoghi in cui c'è bisogno del loro lavoro.

Perché il loro è un lavoro fondamentale per i latifondisti pugliesi: a basso costo, senza particolari tutele da garantire.

Agli africani non vengono concesse neppure le 3 euro all'ora garantite alle contadine italiane. Sono pagati a cottimo: 4 euro per ogni cassone da circa 350 chili di pomodori grandi che riescono a riempire; 8 per ogni cassone di pomodori piccoli. Le ore di lavoro dipendono dalle esigenze dell'azienda. "Quest'anno ho notato orari più umani: dalle 5 del mattino all'ora di pranzo. Ma mi è capitato spesso, soprattutto in passato, di vedere uomini lavorare fino alle 18 sotto al sole, con una temperatura che si aggira attorno ai 40 gradi", prosegue Cleopazzo.

Ai soldi che riescono a racimolare ogni giorno, in genere tra i 20 e (per quelli più forti e fortunati) i 40 euro, bisogna sottrarre il costo del passaggio “offerto” dal trasportatore (5 euro) e quello per due bottigliette d'acqua e il panino (4 euro), che in alcuni casi hanno la possibilità di procurarsi autonomamente. I più sfortunati devono pagare anche il posto letto su materassi raccattati qua e là.

È proprio dalle porte di Nardò che iniziamo il nostro viaggio, sulla strada che conduce dal centro abitato alla Strada statale 101 che porta a Gallipoli. Chi percorre questa via quotidianamente non fa più caso ai braccianti che si recano in paese a piedi o in bicicletta, anche in tarda serata, al buio, rischiando di essere investiti dalle auto che si muovono in velocità.

Basta imboccare una piccola traversa per vedere dove vivono. A poche centinaia di metri sorge il campo istituzionale fornito dal Comune di Nardò: 17 tende in cui dormono in quattro o sei persone, sei bagni e sei docce usati da circa 300 africani. Sono loro a doversi procurare pure i materassi. Il Comune non li mette a disposizione, così come non mette a disposizione le cucine. All'esterno del campo gli africani ne hanno realizzate alcune di fortuna, in luoghi impensabili, distinte per etnia. Quella tunisina, ad esempio, sorge sotto un ponte.

Il campo è chiaramente insufficiente per il numero di persone ospitate. Così sono in molti a finire nelle baracche, in tanti nel "ghetto": una vecchia falegnameria occupata, che non solo non rispetta neppure lontanamente i livelli minimi previsti dalle norme igenico sanitarie, ma è del tutto pericolante e rischia di crollare da un giorno all'altro, su cui pende un'ordinanza di sgombero del comune, rimasta sulla carta. Qui non si può entrare con le telecamere. Nessuno si assume la responsabilità di accompagnarci. Solo lontano dagli obiettivi, con qualche volontario che sta al loro fianco, si può accedere.

Il ghetto fa impressione: è sporco e fatiscente. Bottigliette e lattine vuote lungo tutto il percorso che conduce all'ex falegnameria, un immobile con porte e finestre distrutte, balconi diroccati, da cui si intravedono segni di una vita quotidiana difficile da immaginare: qualche maglietta, un secchio, un asciugamano.

Di giorno qui sono in pochi, quelli meno fortunati che non sono riusciti ad accaparrarsi il lavoro e che cercano di ripararsi dal sole e dal caldo come meglio possono. Sotto piccole baracche di fortuna realizzate, tutto intorno, con i mattoni del muro di cinta, sotto gli alberi, su sedie di plastica sgangherate, e materassi smembrati.

L'immobile (se così si può chiamare) non è dotato di servizi igenici né di energia elettrica. Chi non riesce ad usufruire delle docce del campo istituzionale, si lava con acqua raccolta in grosse pentole, cercando ripari di fortuna sotto agli ulivi. Quando fa freddo, magari in primavera, l'acqua viene prima fatta bollire.

Le squadre di lavoro sono formate, a loro piacimento, dai caporali, principalmente sudanesi e tunisini, spesso gli stessi arrestati nel 2012 e già tornati in libertà: intermediari tra i datori di lavoro e i braccianti, pagati a caro prezzo da questi ultimi, in termini di denaro e vessazioni. Fanno parte di un un articolato sistema illegale composto da "capi bianchi" e "capi neri", sentinelle e trasportatori. Figure che si rendono "necessarie" perché il lavoro degli africani in Puglia non è regolamentato.

Quanti si indignano davanti alla morte di turno, dopo qualche giorno dimenticano e fanno finta di non vedere.



Va così da almeno vent'anni: i braccianti continuano a vivere nel 2015 da fantasmi in un "universo parallelo" e invisibile ai più, dove non esistono istituzioni e governo, sul territorio dello Stato.

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