Cronaca locale

La storia di Barbara Bartolotti, sopravvissuta al femminicidio

Nel 2003, a Palermo, Barbara Bartolotti è stata vittima di un femminicidio. Colpita con martellate alla testa, coltellate in pancia e poi data alle fiamme da un suo collega. Il suo aggressore è libero ed ha avuto la possibilità di rifarsi una vita. Lei, al contrario, non riesce a trovare lavoro per via del suo aspetto fisico.

La storia di Barbara Bartolotti, sopravvissuta al femminicidio

Quattro martellate alla testa e una coltellata all'addome. La benzina, le fiamme. "Sono viva per miracolo", sospira Barbara Bartolotti dopo averlo detto. Poi, tace per qualche istante, con lo sguardo fisso a quel maledetto 20 dicembre del 2003.

La sua vicenda personale è tristemente nota alle cronache come uno dei casi di femminicidio più efferati che sia siano consumati nel nostro paese. Perché sì, Barbara è viva ma una parte di sé è morta sotto i colpi di furia cieca del suo aggressore. "Dico sempre di aver vissuto due vite. - afferma - E la prima, è stata un martirio".

Ha la voce strozzata in gola quando ripercorre con la memoria i pochi, infiniti e dolorosi minuti, in cui il suo corpo si era trasformato in una torcia incandescente che correva lungo la tangenziale di Palermo in cerca di aiuto. "Perdevo molto sangue e la pelle cadeva a brandelli sul manto della strada – ci racconta – Mi sono spenta le fiamme addosso da sola. Ancora non mi spiego come sia riuscita a sopravvivere, cosa mi abbia dato la forza di tirarmi in piedi e di rimanere lucida fino all'arrivo in ospedale. Ripeto, è un miracolo". E non sta affatto esagerando quando lo dice.

È accaduto tutto in un pomeriggio. Così, all'improvviso, senza alcun preavviso. Un suo collega, Giuseppe Perrone, aveva chiesto di incontrarla per una chiacchierata, nulla di più. "Non mi aveva stranito l'invito, - spiega Barbara - lavoravamo spesso fianco a fianco, sembrava un ragazzo tranquillo. Quindi, ho accettato di vederlo senza problemi. Non avrei potuto mai neanche lontanamente immaginare cosa sarebbe accaduto. Quando eravamo in auto, mi sono accorta che imboccava la strada dell'aeroporto, dunque ho pensato di telefonare a mio marito per avvisarlo che probabilmente avrei tardato. All'epoca, ero incinta del mio terzo bambino e non volevo si preoccupasse. Ma non c'è stato il tempo di fare quella chiamata..."

Proprio nel frangente in cui Barbara estraeva il telefono dalla borsa, il meschino l'ha colpita alla nuca con un martello. "Se non posso averti io, non deve averti nessuno", le ha urlato prima di sfinirla con altre tre martellate, una coltellata in pancia, calci e pugni. Ma non è tutto. Sulla scia di un'ira cieca, malata e perversa, l'assalitore ha estratto dal bagagliaio della sua auto una tanica di benzina con un mucchio di carta da giornale. Così, ha cosparso di gasolio il corpo già martoriato dell sua vittima per darlo alle fiamme. "Ardevo sull'sfalto - prosegue il racconto – ma ho pensato che non potevo dargliela vinta. Così, quando lui è salito in macchina io mi sono finta morta e ho aspettato che si allontanasse. Poi, sono fuggita via scavalcando il filo spinato che delimita la carreggiata, mi serviva una scorciatoia. Correvo carbonizzata, con il corpo completamente insanguinato, lungo la tangenziale. Due persone mi hanno caricata in macchina e mi hanno portata in ospedale. Arrivata al pronto soccorso, l'unica frase che sono riuscita a pronunciare è stato il nome del mio assassino. Poi, mi sono accasciata".

Dieci giorni di coma, 6 mesi di ospedale, 27 interventi chirurgici e cinque anni di guaine contenitive. È quanto Barbara ha dovuto patire dopo l'attacco feroce, brutale e disumano del suo aggressore. Ma, come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, ha trovato di ricominciare. Così, nel 2007 è nata Federica, quella figlia che lei stessa definisce "il simbolo della rinascita". Ciononostante, ci sono ancora dei nervi scoperti in questa vicenda, delle ferite stillanti dolore che, molto probabilmente, non verranno mai risanate.

Sebbene l'ex collega abbia confessato i fatti e sia stato giudicato colpevole di tentato omicidio, con l'aggravante della premeditazione, non ha fatto che solo pochi giorni di carcere. La pena di 25 anni comminatagli in prima istanza è stata ridotta a 4 anni di domiciliari grazie alla "scontistica forfettaria" dell'indulto. Così, l'uomo ha avuto potuto la preziosa possibilità di rifarsi una vita. Oggi, infatti, Perone è sposato, ha due figli e lavora ancora in banca. Per Barbara, invece, le cose sono andate diversamente.

"Così, come se nulla fosse mai accaduto, per lui la vita continua normalmente. - ci dice Barbara – A me, questa possibilità è stata negata. La Giustizia non solo non mi 'ha premiata' ma sono stata completamente lasciata dalle istituzioni al mio calvario umano. Io non ho paura a dirlo: lo Stato mi ha abbandonata. E il paradosso è che mio marito fa il poliziotto e di quello stesso Stato ne è un ligio servitore. Io pago tutto, dalle terapie a cui ancora mi sottopongo ai farmaci, oltre alle spese che ha una normale famiglia che vuole vivere onestamente e che prova a tirare su tre figli perbene in una realtà difficile come Palermo".

Dopo la disgrazia, Barbara non riesce più a trovare a lavoro, respinta dai più per le cicatrici profonde che sono impresse sul suo volto. "Le persone si spaventano quando mi vedono. – prosegue – Ed alcuni, molti purtroppo, non hanno neanche l'educazione di tacere. Mi allontano, manco fossi la peggiore prostituta della città. Capisco lo stranimento e la curiosità dinanzi ad un viso sfigurato ma i commenti sgradevoli proprio no. Ho messo da parte i titoli di studio che ho, l'esperienza maturata in una impresa edile e tutto il resto. Ho cercato lavoro persino come badante e addetta alle pulizie ma non ci sono riuscita. E se giustizia non è stata fatta, che mi sia resa riconosciuta almeno la dignità di donna. Lo devo a me stessa, alla mia famiglia ma soprattutto a tutte quelle donne che non ce l'hanno fatta".

Dal 2015, Barbara ha fondato l'associazione Libera di Vivere che si propone di accogliere le richieste di aiuto da donne in difficoltà ma, nel concreto, il progetto non è mai decollato per la negligenza delle autorità locali. "Ho bisogno di una sede, di tutele – è il suo appello disperato e coraggioso – Ecco, non chiedo soldi ma tutela per me e tutte quelle donne che sono perseguitate da mariti violenti e, in generale, uomini pericolosi. Sto combattendo con il comune di Palermo da anni ma al sindaco non importa nulla del mio progetto. E io come faccio da sola? Ho tre figli, di cui due sono femmine, li devo proteggere. Ma se pensano che io molli, si sbagliano. Sono sopravvissuta alle martellate, ad una coltellata in pancia e alle fiamme. Non mi ferma niente e nessuno".

In conclusione della chiacchierata, Barbara rivolge un appello accorato a tutte le donne che sono vittime di violenza e non hanno il coraggio di denunciare: "Scappate dagli uomini violenti, non siete sole.

È la vostra vita, la vostra unica possibilità e avete il diritto di viverla in totale libertà".

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