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Così i reduci bersaniani hanno inguaiato il governo

Cuperlo & Co. esultano, i renziani abbozzano per non spaccare il partito sotto elezioni

Così i reduci bersaniani hanno inguaiato il governo

Non c'è dubbio che stavolta dallo scontro che ha imposto il voto di fiducia sul decreto lavoro escano sconfitti i moderati di Ncd, e vincitori loro, la sinistra del Pd. Quella che sembrava ormai destinata alla rottamazione ma che sul testo del ministro Poletti ha tentato di prendersi una (piccola) rivincita, e canta vittoria: «Non si riforma il mercato del lavoro a colpi di diktat - dice Gianni Cuperlo - In questo senso il confronto in commissione alla Camera è stato utile e costruttivo».

Una rivincita tutta o quasi di facciata, a sentire i renziani: «Non è che se i rinnovi del contratto a tempo determinato sono otto il provvedimento è di destra, e se invece sono cinque diventa di sinistra: si tratta solo di dispute ideologiche», sottolinea il responsabile Lavoro del Pd, Davide Faraone. Ma quelle piccole correzioni strappate in commissione sono diventate la bandiera di una componente interna divisa e provata dopo mesi di trattamento Renzi, che ha puntato tutte le sue carte per uscire dall'angolo e far vedere che ancora conta qualcosa sulla partita della riforma del lavoro. Perché si tratta di una bandiera identitaria, certo, e perché su quel terreno ha potuto giocare di sponda con la Cgil di Susanna Camusso. Ma anche e soprattutto perché, per una volta, si è trovata in condizioni di vantaggio.

Nella commissione Lavoro della Camera, dalla quale il decreto è uscito modificato, la vecchia sinistra laburista e filo-Cgil è infatti in netta maggioranza rispetto all'ala riformista, grazie ad una composizione disegnata in era bersaniana. E il presidente è Cesare Damiano, ex sindacalista Fiom ed ex ministro del Lavoro, strenuo oppositore di Renzi negli scorsi mesi e allergico alla parola «flessibilità». È stato lui ad imporre una serie di audizioni con le «parti sociali», sindacati in testa, per aggirare il no alla concertazione del premier e per allungare i tempi, e pilotare le modifiche. A dargli manforte sono stati l'ex segretario Guglielmo Epifani, già leader della Cgil e l'ex vice-ministro Stefano Fassina, aspirante leader della sinistra Pd. Ma anche i Giovani Turchi, più dialoganti con Renzi, sul decreto lavoro hanno fatto muro: «Ora è a stento potabile. Se Alfano vuol riaprire la discussione lo faccia pure. Così reintroduciamo anche la causale», minacciava ieri Matteo Orfini.

A Renzi e Poletti è toccato rassegnarsi e far buon viso a cattivo gioco: inghiottire alcune modifiche «che avremmo preferito non fare», come ammettono i renziani, per non spaccare il partito alla vigilia delle elezioni, lasciandosi uno spiraglio al Senato, dove la discussione si riaprirà. Il rischio, altrimenti, era di ritrovarsi con un decreto votato a larga maggioranza dalla Camera, con i voti di Forza Italia (che apprezzava la versione iniziale) ma senza quelli di un pezzo di Pd. E con un terremoto di polemiche che è facile immaginare, con ripercussioni pericolose sul voto del 25 maggio.

Superata la boa delle elezioni e incassato quello che Renzi spera sia un risultato «oltre le aspettative» per il Pd, il premier ha tutte le intenzioni di rifarsi con il Jobs act, la delega al governo per unificare e semplificare le leggi sul lavoro, per introdurre un contratto generale d'inserimento triennale a tutele e oneri crescenti e il sussidio universale di disoccupazione. Quello, assicurano i suoi, sarà il vero terreno di prova per l'innovazione. Anche lì il governo dovrà fronteggiare l'assalto della sinistra filo-sindacale, che darà battaglia per imporre vincoli alla flessibilità.

Ma le elezioni saranno lontane, «e la minoranza stavolta non avrà scelta, e dovrà adeguarsi», assicurano i renziani.

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