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Come andare in pensione con un tesoretto da parte

Il 2015 conferma la tendenza: la previdenza integrativa rende più del Tfr in azienda E ai contributi versati si somma pure la quota del datore di lavoro, che non costa nulla

Come andare in pensione con un tesoretto da parte

Sistema contributivo, tasso di sostituzione non incoraggiante, coefficienti di trasformazione legati alla speranza di vita e bassa rivalutazione a causa dei tassi ai minimi. Per dirla in breve, a molti toccherà una pensione bassa. In primo luogo, perché le retribuzioni sono ferme (nel 2015 sono cresciute dell'1%) e questo incide sull'importo dei contributi che versiamo e, in secondo luogo, perché l'elevata spesa pubblica per finanziare le gestioni in perdita dell'Inps (100 miliardi circa all'anno) prima o poi daranno luogo a ulteriori misure indirizzate al risparmio. Ecco perché la previdenza complementare, quella che per molti è la «pensione integrativa», è un'esigenza oggi irrinunciabile.

Mettere da parte un gruzzoletto è necessario se non si vuole correre il rischio (soprattutto i più giovani) di arrivare alla fine dell'esperienza lavorativa con un assegno mensile che, se non si sarà svolto un impiego remunerativi, arriverà sì e no al 60% dell'ultima retribuzione. Una scelta utile anche alle donne (che oggi celebrano la loro festa) perché ove mai si concedesse al gentil sesso un'ulteriore scappatoia dalle maglie strette della riforma Fornero, questa non potrà essere pagata che a prezzo di un decurtazione dell'assegno. «È una legge nata male sin dall'inizio», ha commentato il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, sottolineando che «è assurdo pensare che a 70 anni le donne, ma anche gli uomini, possano lavorare, penalizzando così i giovani».

La previdenza complementare, come mostrano i numeri, conviene due volte. In primis perché le rilevazioni della Covip (la commissione di vigilanza di settore) hanno evidenziato che i rendimenti medi al netto dei costi di gestione e della fiscalità, si sono attestati al 2,7% tra i fondi negoziali (i fondi chiusi delle singole categorie lavorative) e al 3% tra quelli aperti. Ancor più elevato il rendimento dei prodotti assicurativi (i piani individuali pensionistici o Pip) che hanno generato in media il 3,7%, un tasso triplo rispetto al Tfr che, lasciato in azienda o all'Inps, si è rivalutato, al netto delle tasse, dell'1,2 per cento. In secondo luogo, la pensione integrativa conviene perché le somme versate sono deducibili (cioè vengono sottratte al reddito imponibile) fino a 5.164,57, i vecchi 10 milioni di lire. I lavoratori dipendenti che aderiscono al fondo di categoria, poi, beneficiano anche del versamento congiunto da parte dell'azienda.

La scelta, ovviamente, deve essere effettuata con la stessa meticolosità, anzi ancor maggiore, di quella che si adopera quando si sceglie come investire i propri risparmi. In prima istanza, è bene chiedersi quanto si vuole versare. Versando 200 euro al mese per 30 anni e ipotizzando un tasso di interesse medio annuo dell'1% si percepisce una rendita complessiva di circa 84.300 euro che si traduce in un'integrazione ventennale di circa 350 euro al mese. Va detto che l'accantonamento di fondi per la previdenza integrativa diverrà un must se il governo Renzi dovesse decidere di tagliare l'Irpef mediante una sforbiciata dei contributi previdenziali. La somma in più in busta paga dovrebbe essere risparmiata per non trovarsi con un vitalizio ancor più magro.Per la pensione vale la stessa regola degli investimenti, ossia bisogna chiedersi quanto si è disposti a rischiare. L'ipotesi sopra effettuata contempla una rivalutazione annua dell'1% perché non tutti sono disposti a sottoscrivere piani previdenziali azionari che nel lungo periodo offrono ritorni migliori. Nel periodo 2012-2014, gli ultimi analizzati, i fondi con un'esposizione superiore al 70% all'azionario hanno raggiunto rendimenti spesso prossimi al 15 per cento.

Tassi di tutto rispetto.

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